VITTORIA - Romanzo storico - cap. VI

 VI - TENEBRE

    E' notte.
    Passi pesanti e precipitosi risuonano nell'atrio tutto avvolto nell'ombra. L'ostiario accorso non ha neppure fatto in tempo a togliere la pesante sbarra alla porta d'uscita, che già Eugenio fuori di sé l'ha aperta e, quasi fuggendo, è scomparso nel buio. Fuggina, sì, da quella casa, per la quale ora provava un sentimento di odio misto a un disperato amore.
    Scendendo il leggero pendìo del Quirinale, si mise a correre.
    Nel cielo si accavallavano nubi temporalesche; raffiche di vento tentavano strappargli il mantello; la polvere lo accecava. Si annunciava un uragano, uno di quegli uragani estivi tanto più impetuosi, quanto più improvvisi e passeggeri.
    Prima di voltare verso il Foro, si volse indietro. In cima al colle si distinguevano sul cielo paurosamente livido le ombre scure dei cipressi del giardino di Fabio.
    Le nubi nere, rincorrendosi pazzamente, scoprirono per un istante un lembo di cielo sereno. Una stella luminosissima scintillò per un attimo, poi fu velata da un'altra nube. Quella luce improvvisa, dietro a quegli alberi neri, suscitò nell'animo sconvolto di Eugenio un'onda di ricordi penosi.
    In quel giardino, poche settimane prima, in un placido tramonto di maggio, aveva parlato per la prima volta a Vittoria del suo amore per lei. Appoggiata alla balaustra del  belvedere, guardava lontano; ma una lacrima tremolava nei suoi occhi. In quel giardino, mentre il sole scompariva in un alone di fuoco dietro la cima del Gianicolo, aveva sognato un avvenire felice. Sotto quei cipressi, baciati dal sole cadente, aveva chiesto a Fabio la mano di Vittoria.
    Vittoria! La sua fidanzata! Perché non più sua? Chi gliela aveva rapita? Era perduta, perduta per lui!
    A questo pensiero un'ira incontenibile gli gonfiò il petto. Strinse il pugno, lo agitò contro il Grande, Invisibile Rivale, del quale pochi minuti prima Vittoria, pallida, ma risoluta, gli aveva svelato il nome. Vittoria era cristiana e per di più pretendeva di essersi irrevocabilmente consacrata al suo Dio.
    Era una follia! Ma avrebbe ceduto. Per amore o per forza il giovane era deciso a farla cedere. Sarebbe stata sua ad ogni costo.
    Sorrise amaramente.
    Ma tanto l'opprimeva il pensiero delle gioie perdute, che lacrime di dolore e di rabbia impotente sgorgarono dai suoi occhi aridi e stanchi.
    Il cupo brontolio del tuono lontano lo riscosse. Se avesse indugiato ancora, il temporale lo avrebbe sorpreso per via. Conveniva affrettarsi.
    Le strade erano deserte. Alcuni giovinastri, dall'aspetto poco rassicurante, altercavano fra di loro al riparo di un porticato. Un gladiatore perfettamente ubbriaco gli venne incontro articolando parole sconnesse, poi proseguì, brancolando nel buio. Il giovane affrettava sempre più il passo.
    Vedeva già in lontananza il biancheggiare indistinto dei templi del Foro, quando una massa scura gli apparve improvvisa ad una svolta; il carcere Mamertino.
    Ora distingueva più chiaramente che una doppia catena di soldati circondava quelle mura funeree: certo la prigione era piena di cristiani, perché la persecuzione infuriava e tutte le prigioni di Roma non bastavano a contenere gli accusati.
    Riandò con la fantasia alla scena di pochi minuti prima, svoltasi nella casa di Fabio e un terribile pensiero gli attraversò la mente. Lo respinse immediatamente, inorridito.
    In quel momento i pretoriani, posti dinanzi allo stretto ingresso, si scostavano per lasciar passare una lunga fila di prigionieri che uscivano alla incerta luce delle torcie, annunziate da un lugubre tintinnio di catene. Erano giovani, vecchi, giovanette, teneri fanciulli: una moltitudine. Eugenio rimase colpito dall'espressione di gaudio che raggiava dal loro volto. Un drappello di pretoriani chiudeva il corteo.
    Chi erano? Dove erano diretti?
    Il tribuno incuriosito, avendo notato fra i soldati di guardia un centurione di sua conoscenza, gli si avvicinò:
    - Che c'è, Crispo? - domandò - Chi sono costoro? Dove li menano?
    - Nobile tribuno - rispose l'ufficiale - sono cristiani condannati alle miniere o all'esilio. Fra di essi - aggiunse abbassando la voce - vi sono tre nobili giovinette che, accusate dai loro innamorati respinti, sono state condannate ad essere prigioniere di questi, fino a quando cederanno.
    Pronunciando queste parole, il soldato rise in modo volgare.
    - Grazie, Crispo, e buona guardia! - disse in fretta il tribuno.
    Il pensiero infame che aveva cacciato inorridito pochi istanti prima, ripresentatosi sotto altra forma, appariva allettante. Si, senza dubbio l'idea era buona: non uccidere subito Vittoria, ma denunciarla come cristiana e ottenerla come prigioniera.
    Aveva il tempo per suo alleato. Senza dubbio la superba fanciulla avrebbe ceduto.
    Ma prima bisognava vedere Aurelio.
    Aurelio! Un moto d'ira lo soffocò: gliele avrebbe fatte sentire! Gli avrebbe raccontato per filo e per segno lo splendido risultato della visita di Vittoria, che doveva intercedere per lui! Anch'egli senza dubbio era colpevole di tanta sciagura.
    Stava per muoversi verso la casa di Aurelio, quando al di là delle spesse mura del carcere, s'udì un canto; un canto che, prima incerto e velato, si faceva di mano in mano più vigoroso e distinto, fino ad assumere il tono di uno strano inno trionfale. Era un coro: un coro armonioso nel quale si distinguevano voci gravi di vecchi, voci squillanti di fanciulli, voci soavi di donne. Tutta la prigione vibrava nella notte nera e tempestosa come un'immensa arpa.
    Eugenio ristette un momento incerto e meravigliato. Gli parve di intuire in quelle voci qualche cosa del mistero che aveva stregato il cuore di Vittoria. L'ira lo assalì più violenta. Si diresse a passi precipitosi verso il Foro.
........
    La casa di Fabio intanto presentava un aspetto senza dubbio insolito e misterioso. Da un'ala all'altra della vasta dimora, tutto era silenzio. I servi si aggiravano per l'atrio e per le sale sontuose senza rumore, come per un'intesa silenziosa.
    Nel triclinio, splendidamente illuminato da candelabri di bronzo che diffondevano intorno la fragranza del nardo, sedeva Livia Plautilla. Con le braccia appoggiate alla tavola d'alabastro e gli sguardi fissi dinanzi a sé, essa ostentava una rigida indifferenza, ma tutt'altro che indifferenza esprimevano i suoi occhi immobili, nei quali passavano di tanto in tanto terribili lampi di collera. Dopo la drammatica scena svoltasi in presenza di Eugenio, essa aveva allontanato da sé Vittoria, senza una parola. La giudicava freddamente un'esaltata, un'ingrata.
    La sua ira sorda, senza manifestazioni esteriori era ancor più terribile di quella di Fabio, il quale fuori di sé si era chiuso in biblioteca, dopo aver coperto la figliola di ingiurie ed aver a stento trattenuto una maledizione che gli saliva alle labbra.
    Ora misurava a lunghi passi la vasta sala, lanciando ogni tanto una sorda imprecazione.
    Chi gli aveva stregato la sua Vittoria? Che fosse cristiana nel suo interno, pazienza; egli non si era mai impicciato delle idee religiose degli altri, ma che intendesse professare liberamente questo suo cristianesimo, ora che la persecuzione infuriava violenta, era una follia. Eppoi, quello di cui non sapeva darsi pace era il suo rifiuto alle tanto auspicate nozze con Eugenio. Decisamente si trattava di un malefizio.
    A momenti gli sembrava di impazzire. La sua unica figlia! Tutta la luce della sua casa! Ma la conosceva: tenace, impavida, non avrebbe ceduto. Si sarebbe lasciata spezzare, ma non piegare. Non per nulla era sua figlia.
    Ma appunto a questo pensiero, all'ira subentrò improvvisamente un'atroce preoccupazione. Come sarebbe andata a finire? Eugenio non era uomo da cedere: accecato dall'ira avrebbe finito per agire per via legale! Che sarebbe accaduto di Vittoria?
    Dinanzi a questa terribile incognita, non si contenne più. Afferrò un grazioso puttino d'avorio che sorreggeva un tripode sbalzato, squisito lavoro asiatico, la prima cosa che gli capitò sotto mano, e lo scagliò con violenza per terra. Le braccia tornite dell'amorino andarono in frantumi, il tripode bronzeo rotolò pesantemente con grande fracasso.
    La prospettiva non troppo improbabile di vedere un giorno la sua unica figlia trascinata dinanzi al tribunale del Foro, gli faceva perdere la ragione. Bisognava a tutti i costi impedirlo. Risolse di mandar subito a chiamare la figlia.
    Vittoria, dopo la tremenda burrasca, si era ritirata nel suo cubicolo, una tranquilla stanza all'estremità della casa che si apriva su di un vasto terrazzo fiorito, dove poteva attendere con relativa calma alla preghiera e alla contemplazione.
    Ora vi si era rifugiata come un uccelletto spaurito.
    Eccola prostata a pié del ricco letto ricoperto di porpora, nel cubicolo, la cui raffinata eleganza contrasta grandemente con l'estrema semplicità della persona che l'abita. Un ricco candelabro d'argento si riflette in un magnifico specchio, consistente in una gran lastra parimenti di lucido argento, sospesa alla parete prospicente il letto. Bassi tavoli di legni preziosi, intarsiati di tartaruga e di avorio sorreggono alcuni scrignetti colmi di quelle gioie delle quali Vittoria usa tanto poco adornarsi, un tripode per bruciare i profumi, alcune statuette di pregio sono disposte con arte. Fra queste ultime senza dubbio la più preziosa è una finissima riproduzione eburnea della Nike di Samotracia, che Fabio le ha donato nel giorno del suo ultimo compleanno. La splendida Vittoria alata sta per spiccare il suo volo, avida di luce e d'azzurro: il vento del mare le gonfia il peplo che sembra palpitare come una bianca vela.
    La fanciulla l'aveva tante volte ammirata nella bottega di un antiquario, appunto per quel suo slancio verso l'alto, per quelle sue ali aperte nell'ebbrezza del volo. Anch'ella vuol assomigliarle, sebbene il suo volo sia di tutt'altra specie e a molti possa sembrare una caduta. La sua aspirazione è stata sempre questa: in alto, più in alto.
    ...Queste cose pensava Vittoria, inginocchiata sullo spesso tappeto persiano. Pregava fervorosamente il suo Signore di darle tanta forza nell'ora della prova, nell'ora dell'amore.
    Ad un tratto un passo la fece trasalire. Balzò in piedi proprio nel momento in cui la figura del liberto Elys appariva sulla portiera.
    Il babbo la chiamava. Vittoria si avviò col cuore in tumulto. Prima di oltrepassare la soglia della biblioteca si fermò un attimo, giunse le mani in una muta invocazione:
    - Signore, parla Tu, per bocca mia !
    Appena Fabio la vide: pallida, modesta, in atteggiamento pieno di rispetto e di dignità, rimase un istante in silenzio. Poi le si avvicinò a passi concitati:
    - Chi è stato - le disse, esaltandosi della sua stessa ira - chi è stato colui che ti ha stregato? Chi ti ha pervertito così, fino al punto di farti diventare un'ingrata, una figlia snaturata, che sarà la vergogna dei suoi genitori? Rispondi.
    Vittoria aveva alzato il capo. Il suo volto si era leggermente colorito.
    - Nessuno, babbo mio, nessuno mi ha costretto ad abbracciare la religione cristiana, nessuno...
    - Che questo nome non venga mai più pronunciato in casa mia: inteso? - l'interruppe il padre bruscamente - non voglio ragionare con te. Già sarebbe inutile... Ti dico soltanto che tu rinuncerai immediatamente alla tua stolta superstizione e sposerai Eugenio; altrimenti... - e qui silenzio pieno di minacce. - Vedremo chi sarà più tenace, se tu o io.
    - Babbo mio - disse Vittoria in tono dolcissimo - io non rinuncerò alla mia fede, perché essa è la vera e porta alla salvezza. In quanto ad Eugenio, non posso sposarlo, perché il mio Signore vuole che io sia sua. Io debbo obbedire prima a Lui che a te.
    - Va via! - ruggì inferocito Fabio, allontanandola col braccio da sé - Va via! Che io non ti veda più dinanzi a me, fino a quando non sarai disposta a fare la mia volontà. E in caso diverso, ricordati bene - aggiunse guardandola cupamente negli occhi - tu non sarai più mia figlia.
    Ritornata nel suo cubicolo, Vittoria scoppiò in singhiozzi. Da suo padre non aveva udito mai una parola aspra. Quelle che ora le aveva rivolto le straziavano il cuore.
    La mamma poi non l'aveva neppure chiamata, non le aveva chiesto nessuna spiegazione, non le aveva rivolto neppure una parola.
    L'amore di Eugenio per lei, si sarebbe ben presto tramutato in un odio feroce. Ma quella sera la sua disperazione le aveva fatto pietà. Le sembrò che tre punte infuocate le trapassassero il cuore. Eppure soltanto ora che cominciava a soffrire, ebbe la piena certezza che il Signore la voleva veramente a sé. Quelle trafitture le parvero una conferma di quella prima misteriosa voce udita nel giardino di Anatolia.
    Il domani le appariva incerto, o meglio, cupamente velato di riflessi sanguigni. Capì che sicuramente la prigionia, la morte, forse qualche altra pena ancor più terribile, le era preparata.
    L'angoscia torceva la sua anima, come la burrasca piegava senza pietà l'albero fronzuto che gemeva sotto la sua terrazza. La pioggia scrosciava rabbiosamente sui fiori che ella tanto amava, il sibilo del vento le faceva stringere il cuore...
    Era notte profonda. Pensò quasi stupita alla Vittoria di ieri, tranquilla, ammirata, invidiata da tutti... Quasi non la riconosceva.
    E trasalì nel sentire che - strano a dirsi o meglio miracolo della grazia - soltanto ora che si sentiva disprezzata, sola, perseguitata, sentiva cantarle nel cuore quella felicità piena, quella consapevolezza di essere amata, quell'ebbrezza di poter amare fino alla morte, che invano e tanto lungamente aveva atteso.
Il suo posto sarebbe stato sulla Croce, accanto al suo Sposo di Sangue.
    Vittoria si prostrò a ringraziare il suo Signore poi, mentre il cuore le batteva forte, si avvicinò alla mensola sulla quale posava il candelabro acceso, trasse fuori dal seno una piccola teca d'oro, l'aprì; la posò su quell'altare improvvisato...
    Un piccolo, candido frammento di pane azzimo, brillò dinanzi ai suoi occhi imperlati di lacrime. Lo guardò a lungo: era quello il segreto della sua vittoria, il suo Dio che le palpitava nel petto.
    Certa che quello sarebbe stato un giorno di battaglia, dubitando fortemente che la sua confessione le sarebbe riuscita fatale, Vittoria aveva ottenuto - cosa non troppo difficile in quei tempi di persecuzione - di tenere presso di sé, quale supremo conforto, la SS. Eucarestia.
    Ora, adorando la presenza palpitante del Divino Agnello, sotto quelle bianche specie, Vittoria si sentì fondere il cuore di riconoscenza e di amore. Giunse le mani e guardando fissamente quel candido Pane, pronunziò tremando le parole del suo patto nuziale. Sentì che il sangue dell'Agnello scorreva ora nelle sue vene, che il suo corpo era divenuto anch'esso un'ostia candida, pronta all'immolazione.
    Niente poteva più farle paura.
    Richiuse la teca, si alzò e si preparò a riposare. Il temporale era cessato. Aprì la finestra per aspirare a pieni polmoni l'aria purificata.
    Grosse nuvole navigavano ancora nel cielo cupo, ma qua e là le stelle facevano capolino. La città dormiva avvolta nell'ombra notturna.
    Vittoria era serena. La gioia del dono totale cominciava in lei larga, possente, invadente, cancellando nel suo animo ogni fantasma terreno, come l'ombra della notte cancellava i contorni e i colori delle cose.
    Si adagiò sul morbido lettuccio e a poco a poco un dolce sopore la prese, distendendole i lineamenti contratti dal pianto, mentre l'aria fresca della notte le disseccava le lacrime sulle gote ardenti. Sulle labbra socchiuse sembrava perfino aleggiarle un lieve sorriso...
    Forse sognava che la mano lieve del Cristo le medicasse con un balsamo soave le tre ferite che le dolevano nel cuore...


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