VITTORIA - Romanzo storico - cap. VII

 Cap. VII - COME GIOVANNI

    Vittoria cominciò a scendere cautamente quei gradini umidi e consumati dal tempo. Il buio era quasi completo e bisognava avanzare a tastoni, appoggiandosi ogni tanto alla parete di tufo corrosa e viscida a causa della forte umidità.
    D'un tratto vide accanto a sé brillare una lampada che subito si spense. "Lode a Cristo" mormorò sommessamente la fanciulla. La luce tornò subito a splendere. Era un giovane fossore con una fiaccola in mano che sorvegliava l'ingresso del cimitero. Poiché la persecuzione infuriava spaventosamente, quelle precauzioni diventavano necessarie.
    Ora le ripide scale erano finite. La fanciulla seguiva il giovane che avanzava lentamente, rischiarandole il cammino attraverso quel labirinto tenebroso.
    Apparivano e si dileguavano, illuminati e poi ripresi dall'ombra, le scritte e i simboli a lei tanto noti.
    Qui è graffito un agnello, là il sacro pesce, più innanzi il cavallo, giunto al termine della sua corsa, poi la nave che è entrata alfine nel porto sicuro, infine l'àncora che ferma la vita in eterno...
    Alla tremula fiamma, sui sepolcri scavati nella pietra, apparivano le solite scritte: "In pace - Vivi nella pace del Signore". Ne vide anche una nella quale era inciso il suo nome: "A Vittoria, anima dolcissima, in pace". Pensò che forse molto presto anche lei avrebbe riposato in quel cimitero, sotto una scritta simile, scolpita nel sasso...
    Ma questo pensiero non la rattristava, oh! no! Nel suo cuore cantava una gioia senza nome: in quella stessa notte, dopo i sacri misteri pasquali, una volta ancora, sotto gli scuri ambulacri della Catacomba, sarebbero risuonati dolcissimi i cantici delle nuove spose di Cristo. E lei non sarebbe più stata tra gli spettatori, perché quella notte le nuove spose sarebbero state due soltanto: Vittoria e Anatolia.
    Ma mentre procedeva lenta per gli ambagi del cimitero, il suo orecchio fu dapprima colpito come dal suono di un calmo respiro. Poi il sussurro diventò un inno: un inno misterioso e suggestivo che sembrava giungere da lontananze ultraterrene, quasicché tutti quei morti, risvegliati dalla tromba dell'Arcangelo intonassero un dolce canto al Creatore della luce, prima di abbandonare i sepolcri nei quali avevano atteso in pace la resurrezione.
    Ora quelle voci erano evidentemente più vicine, perché somigliavano al suono di una fresca cascata montana. La fanciulla, tendendo l'orecchio, ne distinse anche le parole: "Dominus pars haereditatis meae et calicis mei: tu es qui restitues haereditatem meam mihi".
    Una commozione violenta la prese: le sembrò che i fratelli riuniti a salmodiare cantassero proprio per lei, che aveva già distribuito le sue sostanze ai poveri, che aveva rinunciato a tutto ciò che possedeva, anche al suo proprio cuore, affinché soltanto il Signore fosse da quel momento la sua ricchezza e il suo premio.
    Anche Anatolia l'aveva preceduta al cimitero in quella notte di grazia.
    Vittoria si era esposta ad un rischio terribile, allontanandosi di casa all'insaputa dei suoi, ora che era tenuta sotto una stretta sorveglianza, quasi prigioniera; ma la voce la chiamava: "Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con te, prima di patire". E la piccola fidanzata fedele non aveva esitato.
    Malgrado che i sacri riti sarebbero stati quell'anno notevolmente abbreviati a causa delle grandi difficoltà nelle quali si trovava la comunità cristiana, era sempre il Pontefice in persona che li presiedeva. Non era più il venerando Fabiano. Egli riposava, come un condottiero caduto fra i suoi gregari, nella pace del Signore, sotto un loculo di quel cimitero, in mezzo ai suoi figli. Il suo spirito glorioso certo aleggiava in quel momento su di loro, per confortarli nella battaglia. Sulla cattedra di Pietro, dopo un lungo periodo di sede vacante, nel quale le pecorelle erano rimaste senza pastore, sedeva ora Cornelio, il santo prete che, nel maggio dell'anno precedente, aveva rivolto a Vittoria le profetiche parole che noi conosciamo. Egli aveva preso il timone della mistica barca in un periodo terribile, nel quale, accanto a sublimi esempi di eroismo e di fedeltà, si ebbero purtroppo fra i cristiani, molti dolorosi casi di apostasia, esterna almeno, se non interiore e sentita.
    Durante gli anni abbastanza tranquilli che intercorsero fra la persecuzione di Massimino e quella di Decio, le coscienze si erano rilassate, la disciplina allentata e la bufera aveva trovato molti cristiani impreparati. La chiesa era profondamente ferita dalla diserzione di questi suoi figli, i "lapsi" e andava perciò molto cauta nell'amministrare il Battesimo.
    Quella notte appunto i Catecumeni che sarebbero stati immersi nelle acque rigeneratrici, non erano molti. Perciò dopo i sacri Misteri, la cerimonia dell'immersione di ciascuno di essi nel pozzetto scavato nel tufo, adibito a tale uso, non fu lunga. I cristiani novelli uscirono, rivestiti della loro tunica bianca; uscirono a poco a poco i fedeli, dopo essersi scambiati il bacio di pace nell'esultanza dell'Alleluja pasquale.
    A tutti questi riti Vittoria aveva assistito come in sogno. Fra pochi minuti ella sarebbe divenuta, dinanzi al Pontefice e a tutta la Chiesa, la sposa del Verbo, nel tempo e nell'eternità. Per sempre! Questo pensiero la faceva sussultare di gioia! Era questo, l'amore eterno, incommensurabile, tanto a lungo sognato. Questa era la felicità senza nome che aveva letto, durante la "velatio" ormai lontana di dicembre, negli ardenti occhi di Agata, che cercavano le altezze, già sazi ormai nella visione della luce eterna; in quelli limpidi di Giulia, sempre pronti ad abbassarsi negli abissi del nascondimento.
    Per quale miracolo di grazia l'aveva condotta il Signore fino alle nozze e alla immolazione? Se si voltava indietro vedeva nella sua vita veramente il filo d'oro della Provvidenza divina. Anche Cornelio glielo aveva detto, lo ricordava benissimo: "Il Signore ti guida per mano".
    Ora era arrivata ai piedi dell'altare per esservi immolata come la Vittima Divina. La sua anima veniva meno di gioia negli atri del Signore. Il suo cuore esultava nel Dio vivente. "Il passero ha trovato la sua casa e la tortora il suo nido; io, i tuoi altari, mio Re e mio Dio" (Ps.83), andava ripetendo, quasi smarrita, in un'estasi d'amore. La sua vita le sembrava così dritta, così luminosa... Eppure in quel tempo le prove non erano mancate e ancora più terribili si annunciavano per il futuro.
    Dalla sera della sua ripulsa ad Eugenio, non aveva rivisto che di sfuggita i suoi genitori, i quali la tenevano sotto una sorveglianza rigorosa, in una specie di prigionia dorata, sperando di vincere la sua costanza. La loro durezza trapassava il cuore sensibilissimo della fanciulla. Ma soprattutto Vittoria si affliggeva per l'impossibilità di recarsi alla catacomba a ricevere l'unica sua Forza e l'unico suo Conforto. Soltanto tre volte Anatolia era riuscita a farle pervenire per mezzo di una schiava la piccola teca d'oro racchiudente le Sacre Specie. Erano stati attimi di felicità indescrivibile, che le avevano dato la forza di essere costante nelle ore più terribili.
    Eugenio era venuto molte e molte volte a trovarla: soltanto a lui Fabio e Livia Plautilla aprivano le porte del suo appartamento. Il giovane, fisso nella sua idea di vincere la fermezza inconcepibile di quella fanciulla, si era presentato dapprima con le più dolci lusinghe. Poi, vedendo l'inutilità dei suoi sforzi, aveva gettato la maschera, dando sfogo alla sua sorda ira impotente.
    Specie nelle sue ultime visite aveva cercato di intimorire Vittoria, accennando a terribili possibili rappresaglie, peggiori della morte, con e quali egli, d'accordo con Tito Aurelio, avrebbe potuto infierire contro di loro.
    Ma Vittoria trovava anche nella sua fierezza e nella sua dignità di vergine romana, la forza per non tremare e tanto meno indietreggiare dinanzi alle minacce. Nel suo intimo, provava una dolcezza tutta nuova ad abbandonarsi fidente nelle braccia del suo Signore, pensando che certo quel suo abbandono di bimba avrebbe conquistato il Re del suo cuore.
        Anche la sua cara Anatolia si era confessata cristiana ed aveva chiaramente manifestato il motivo del suo rifiuto alle nozze; certamente anche a lei sarebbe toccata la stessa sorte... Ebbene? Non è bello, non è dolce che i fratelli combattano e muoiano assieme sullo stesso campo di battaglia? Da lungo tempo del resto, Anatolia si preparava al martirio e non lo temeva...
    Ora la fidanzata fanciulla, tutta entusiasmo e fuoco, che aveva per un istante accostato le labbra alla coppa dell'amore umano e l'aveva subito respinta per amare soltanto l'Amore increato, accanto alla fidanzata più adulta, più dolce e pacata, che nessun altro amore aveva mai conosciuto, avrebbe giurato dinanzi al Pontefice amore eterno al suo Salvatore.
    In quei lunghi mesi di solitudine, nei quali aveva vissuto una vita quasi contemplativa, Vittoria aveva molto riflettuto sulla grande ventura di divenire sposa di Cristo. Ora che, dopo tanta segregazione e tanta attesa, si trovava finalmente, sia pure a prezzo di un rischio terribile, nella dolce familiare atmosfera della catacomba, fra i canti e il profumo degli incensi, il suo cuore sussultava dalla gioia. Anatolia le stava inginocchiata accanto.
    Il Pontefice era al corrente dei pericoli cui andavano incontro le due sante fanciulle e in quel giorno di grazia, avrebbe voluto premunirle contro ogni insidia del nemico. Ora aveva cominciato a parlare, dapprima con voce quasi sommessa, gli occhi fissi alla colomba d'argento dorato, sospesa sopra l'altare, nella quale erano custodite le sacre Specie. Le sue parole sembravano giungere da regioni ultraterrene e parlavano al cuore.
    Vittoria le ascoltava rapita. Si, esse erano proprio la risposta del Cristo ad un dubbio che, sorto nel suo animo appunto da quel suo desiderio di amore esclusivo e totale, metteva quasi una nota di nostalgia nella gioia che le cantava nel cuore, velava d'una nuvola leggera, il cielo terso di quella luminosa giornata. Che cosa pensava il Cristo di lei, che non aveva risposto subito e totalmente al richiamo del suo amore?
    Ora Vittoria avrebbe voluto che neppur un anelito della sua anima, neppur un palpito del suo cuore non fossero non stati per Lui. Ed ecco che Cornelio, ispirato dallo Sposo divino, andava svolgendo i concetti racchiusi nella splendida frase di Osea: "Caritate perpetua dilexi te, ideo attraxi te ad cor meum".
    Ti ha amato di un amore eterno, Vittoria, il Re del tuo cuore, e per questo ti ha attratto dolcemente e misteriosamente a Sé. Fin da quando tu vivevi nel Suo pensiero, Egli si è invaghito della tua bellezza e  ti ha condotto per le sue vie. "Quando poi il tempo di essere amata giunse per te, Egli fece teco alleanza e tu divenisti sua. Egli stese sopra di te il suo manto, ti lavò nei profumi preziosi, ti rivestì di vesti smaglianti, dandoti profumi e monili di inestimabile valore, ti nutrì della farina più pura e di miele e di olio in abbondanza... E divenisti bella agli occhi Suoi ed Egli fece di te una potente regina". (Ezechiele).
    "Ascolta dunque, figlia, e inchina il tuo orecchio e dimentica la casa di tuo padre. Il Re si è invaghito della tua bellezza"... (Ps.44).
    Queste parole erano per Vittoria come una musica soave.
    Oh! come tutto ciò era vero! In quel momento Vittoria si sentì come consumata dall'amore del suo Dio e non ebbe che un desiderio: amarlo e farlo amare.
    Pregò per tutti, perché pensò che nulla il Re avrebbe negato alla sua piccola sposa. Pregò col cuore di figlia per i genitori che la ferivano ogni giorno col loro oblìo e col loro disprezzo; pregò con cuore di sorella per Eugenio che la perseguitava. E supplicò lo Sposo di attrarre tutti dietro di sé, all'odore dei suoi profumi...
    Alle ultime parole del Pontefice era successo un grande silenzio.
    Nella catacomba spirava aurora di primavera. Una fioritura candida era sull'altare, fiori viventi sembravano le vergini ammantate di candore. Al profumo acuto dell'incenso, si mescolava il delicato effluvio di mille fresche corolle. Il gaudio della nuova primavera della grazia era in tutti i cuori.
    Vittoria rispose come in sogno alle domande del Pontefice, si lasciò inghirlandare della candida corona e appoggiò il capo sull'altare in segno dell'offerta che faceva di se medesima.
        Si riscosse al contatto con la pietra fredda, velata appena da un bianco lino. Capì che da quel momento ella avrebbe dovuto essere ad ogni istante una vittima pura, pronta ad essere immolata. Le parve di posare il capo sul Cuore stesso di Cristo, come Giovanni, il discepolo prediletto, nella sera mesta degli addii.
    Le appassionate parole della Cantica le salivano spontanee alle labbra: "Ponimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio, perché il mio amore è forte come la morte..."
    Sull'immensa distesa brulla della campagna romana, il cielo intanto si sbiancava lentamente... Era l'alba.

                                            *    *    *    *    *    *    *    *    *    *    *    *    *

    In quello stesso tempo una scena ben diversa si svolgeva sulla via Flaminia.
    Ivi un brulichìo di gente, varia di razza, di carri, di cavalli, di soldati, di portatori di viveri, fra l'ondeggiare festoso delle insegne dorate e quello pauroso delle macchine belliche, due legioni si preparavano a partire al seguito dell'imperatore verso le brumose contrade del Danubio, per rintuzzare la baldanza sempre crescente dei barbari Goti.
    Mentre i gregari si affaccendavano intorno ai carri dei vettovagliamenti o provvedevano ad ultimare il proprio equipaggiamento, in una confusione indescrivibile, gli ufficiali, riconoscibili dall'alto pennacchio e dalla corazza ornata di rilievi dorati, passavano rapidamente da un punto all'altro dello schieramento, per constatare se tutto era in ordine per la partenza.
    Fra questi si notava l'alta figura di un giovane tribuno, nei cui occhi neri, di tratto in tratto cupi, sembrava bruciare una fiamma divorante e quasi selvaggia.
    Dopo alcuni mesi di tentativi infruttuosi, dopo essere passato alternativamene dalle lusinghe alle minacce, Eugenio, accecato dalla sua ira impotente, aveva finito per soffocare nell'odio il suo disperato amore ed, istigato da Aurelio, aveva accusato Vittoria al tribunale del Foro, come cristiana, mentre Aurelio, per conto suo, s'incaricava di deferire Anatolia.
    Ma Eugenio, memore delle parole udite dal centurione dinanzi al carcere Mamertino, era riuscito ad ottenere che Vittoria ed Anatolia non fossero subito condannate a morte, bensì esiliate, ciascuna in un podere del suo innamorato respinto. Quivi sperava Eugenio di poter in qualche modo piegare la fanciulla alla sua volontà. Aveva incaricato il suo fedele liberto Liciniano di usare qualsiasi mezzo per vincerne la fermezza, in modo che il periodo della sua forzata assenza, non fosse tempo perduto. Segretamente si attaccava a quest'ultima speranza e in cuor suo si sentiva liberato di un grosso peso, al pensiero che all'arresto di Vittoria non sarebbe seguita immediatamente la condanna.
    Proprio quella mattina, prima della sua partenza, le due fanciulle sarebbero state imprigionate.
    In quella luminosa alba di Pasqua, dopo la notte paradisiaca trascorsa nel cimitero, le due candide colombe, sarebbero divenute preda degli avvoltoi.

    



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