VITTORIA - Romanzo storico - cap. VIII

 VIII - LA VIA DOLOROSA

    Il pesante carro s'avanzava lentamente al lume della luna. A quel chiarore diffuso tutte le cose d'attorno prendevano un aspetto irreale. La polvere della strada era di un candore abbacinante, le masse degli alberi si stagliavano ancor più cupe sul cielo luminoso, mentre le pendici dei monti lontani, ammantati di foreste e di praterie, avevano preso le magiche cadenze di una stoffa di velluto cupo. Ma le loro sagome spesso aguzze, sembravano fantastici profili di giganti addormentati.
    Le onde del Tevere, che costeggiava la strada, erano d'argento. Intorno alla luna, nuvole leggere dai riflessi perlacei intrecciavano le danze più bizzarre, riunendosi in cumuli, arrotondati, disfacendosi subito in tenui veli di cirri inconsistenti.
    Nei cuori degli uomini pioveva da quel pallore una languida ebbrezza assai simile al sonno. Gli occhi delle cose guardavano come ipnotizzati il grande occhio luminoso del cielo.
    Ma nell'interno del carro coperto da pesanti tende di cuoio, pensieri e sentimenti ben diversi tenevano egualmente desti i viaggiatori; quattro soldati armati di tutto punto, un uomo di mezza età dall'aspetto feroce e due fanciulle giovanissime che a prima vista si davano a conoscere per appartenenti a nobilissima stirpe. Il tenue chiarore latteo che filtrava attraverso i tendaggi, illuminava appena i loro profili delicati, d'una bellezza eterea, ma pur tanto diversa.
    Una appoggiava sulle palme congiunte il viso dolcissimo, incorniciato da capelli castani lunghi e inanellati, lasciando che le palpebre velassero modestamente lo splendore delle pupille pensose; mentre gli azzurri occhi dell'altra, splendenti come stelle nel candore alabastrino del volto, ravvivato da morbidi riccioli bruni, erano perduti in un sogno di luce.
    La passione di Anatolia e di Vittoria è cominciata.
    Quella mattina, di ritorno dalla catacomba avevano trovato la casa circondata di soldati. Tratte insieme dinanzi al tribunale del Foro, erano state più volte esortate a sacrificare ed a piegarsi al volere dei loro fidanzati. Infine, dopo molti inutili tentativi, il giudice aveva dichiarato che, per riguardo alla loro condizione, egli aveva stabilito di accordare loro una dilazione di tempo, prima della sentenza, dilazione durante la quale ciascuna sarebbe stata consegnata allo sposo respinto, affinché - aveva soggiunto il magistrato - una matura riflessione potesse indurle a mutar parere, aprendo gli occhi in tempo per non commettere un errore irreparabile.
    Aurelio attendeva Anatolia nella sua villa di Tora, mentre Vittoria, essendo Eugenio già partito, fu lasciata in piena balìa di Liciniano, suo liberto di fiducia, uomo notoriamente inflessibile e crudele.
    Alla vista di questi, alto, nerboruto, butterato sul viso, stranamente olivastro, al pensiero della terribile sorte che l'aspettava, Vittoria sentiva un brivido correrle per le vene. Da lungo tempo ormai anelava al martirio, da lungo tempo chiedeva al suo Signore di bere il calice della sua passione e di purificare la veste della sua verginità nel cruento lavacro del sangue dell'Agnello: "fortis ut mors dilecto". Ma non avrebbe mai immaginato la tremenda possibilità di essere lasciata in balìa di gente malvagia e crudele che non l'uccideva solo perché aveva tutto l'interesse di piegarla ai voleri del suo signore.
    Fu un attimo di smarrimento.
    Ma subito, dal suo cuore si levò verso il cielo una supplica appassionata: "Tu che vedi la mia debolezza soccorrimi, perché soffro per te". Una grande pace, una sicurezza mai provata scese nel suo cuore.
    Quando, insieme ai soldati, aveva attraversato le vie affollate della città, per essere giudicata dinanzi al tribunale del Foro, non si era accorta di nulla. Il Signore le aveva messo l'animo in un dolce stato di anestesia mistica. Le sembrava di lasciarsi portare dal suo Diletto, il capo appoggiato sul suo Cuore... Tutte queste cose ricorda ora Vittoria, mentre il veicolo avanza sobbalzando sulle pietre della Via Salaria.
    Da poco tempo hanno oltrepassato le case addormentate di Fidene. Roma si allontana. Vittoria si sente stringere il cuore al pensiero dei suoi genitori, soli nella grande casa deserta. Risente ancora il pianto disperato della mamma, vede ancora negli occhi di Fabio un'angoscia muta e terribile.
    Se nei mesi precedenti l'una e l'altro sono stati inflessibili, ora che si son visti strappare dalle bracci ala carne della loro carne, il dolce frutto del loro amore, non hanno potuto nascondere in alcun modo il loro strazio, che ha accresciuto quello della vergine. E Vittoria ha varcato per sempre la soglia della casa paterna, proprio mentre la prima stella della sera brillava incerta sul cielo azzurrissimo, nell'ora in cui partono dalle case delle fanciulle i cortei nuziali. Ma le fiaccole splendenti non si erano accese per lei, né gli amici dello sposo l'avevano scortata nella lettiga infiorata. Non si erano innalzati per lei nell'aria trasparente i festosi imenei...
    Ma rudi soldati avevano brutalmente sospinto per le vie dell'Urbe la dolce fanciulla le cui mani apparivano cinte non da aurei braccialetti, ma da ferree catene, mentre voci di pianto si erano levate da ogni parte.
    La bella casa sul Quirinale dormiva certamente adesso nel chiarore lunare. Le fontane del giardino apparivano alla fantasia della vergine prigioniera, sotto il candido raggio, suggestive, come spesso le aveva viste nelle sere di luna. Dalle finestre aperte entravano nell'ampia casa mille delicati profumi... Ma il babbo e la mamma, no, certo non dormivano. Certo piangevano per lei e il loro dolore era cupo, senza conforto... "Signore, aiutali - pregava Vittoria. - Fa che queste lacrime non siano sparse invano... Illumina le loro menti! Confortali Tu!"
    Nella sua mente stanca si sovrapponevano le immagini... Le sembrò per un istante di sentire il passo cadenzato delle legioni romane che avanzavano, lungo un'altra strada consolare illuminata dalla luna... Fu un attimo... La visione scomparve. Più nulla. Fece allora al suo Signore l'offerta completa di tutto e di tutti. Disse addio alla sua casa, dolce nido della sua infanzia, dove aveva amato e sofferto, alla catacomba della sua rigenerazione e delle sue nozze, al Foro che doveva essere un sogno di bellezza sotto quei raggi d'argento, ai dolci pini della via Appia, ai meravigliosi tramonti di fuoco che aveva tante volte contemplato dal belvedere del suo giardino.
    Salutò in Cristo le anime che l'avevano amata e che l'amavano: il Pontefice, i sacerdoti, il babbo, la mamma, gli schiavi suoi fratelli nella fede, e Giulia, Valeria, Lucilla le compagne della sua adolescenza pensosa... Fece al Cristo anche l'offerta di Anatolia, che le sedeva accanto ancora per poco, dolce sorella, nel cui cuore aveva tante volte riversato il suo cuore afflitto. Sapeva bene che sola, spoglia perfino del più legittimo desiderio, del più lieve attaccamento, avrebbe dovuto salire il suo Calvario, sulla cima del quale l'aspettava uno Sposo Crocefisso.
    Un'onda di commozione le salì alla gola... La represse, guardando il suo sacrificio senza debolezze, perché comprese che soltanto per esso la sua offerta diventava feconda. La via era ancora lunga e faticosa: era facile prevederlo; e lembi di carne e gocce di sangue - come le aveva predetto Anatolia in quella sera decisiva nella villa Salaria - avrebbe lasciato fra i rovi e sulle pietre taglienti. Ma le sembrava giusto che lo Sposo Divino si facesse aspettare un poco, dato che tanto ella aveva tardato a rispondere al suo invito. 
    A poco a poco, al dondolìo monotono del carro, un dolce torpore la invase. Chiuse, quasi senza avvedersene, i dolci occhi nei quali ancora passavano i sogni, appoggiò il capo sulla spalla di Anatolia e s'addormentò placidamente.
    Un soldato la guardò meravigliato. Il raggio della lun dava al suo viso dormiente la trasparenza dell'alabastro. Il suo seno si alzava e si abbassava lievemente in un respiro regolare. "E' proprio una bambina" pensò. Ma quando si ricordò che quella bambina lasciava senza rimpianto casa, famiglia, agi, per non venir meno alla fede data, e, per seguire un ideale non terreno, andava serena incontro alla morte, anche quell'uomo rude capì di trovarsi dinanzi ad un fatto straordinario.
    Anatolia frattanto l'aveva accomodata con tenerezza materna sulla sua spalla e l'aveva ricoperta alla meglio col suo mantello. Sapeva che quelle erano le ultime ore che passava accanto a lei... e il pensiero di una separazione le stringeva il cuore. Pregava mentalmente il Signore di chiamare presto a Sè la sua dolce sorellina, senza farla troppo soffrire nel contatto con uomini malvagi. E mirava con segreta apprensione l'aspetto ributtante di Liciniano che di tanto in tanto, dal suo posto accanto al conducente, si volgeva indietro a guardare le sue vittime, con un ghigno di trionfo.
    Del resto il cuore di Anatolia era in pace. Aveva combattuto la buona battaglia, era giunta al termine del viaggio, aveva serbata intatta la fede: le spettava ora la corona di giustizia che le avrebbe dato il Signore, giusto Giudice.
    La zia Cornelia l'aveva offerta piangendo al Signore, ma nel suo dignitoso dolore brillava la luce di una speranza ineffabile; Cecilia e Paolo, i due figlioletti maggiori, avevano tanto pianto, ma avevano capito che la loro sorella adottiva, la dolce compagna dei loro giochi, se ne andava da quel Gesù, del Quale tante volte, nelle lunghe sere d'inverno, aveva raccontato le storie semplici e meravigliose. Ma il piccolo Marco, mentre Anatolia si allontanava si era scagliato sui soldati, minacciando col piccolo pugno i rapitori della sua mammina.
    Le ore passavano lente. La luna era tramontata e un buio fitto avvolgeva i viaggiatori. Opache nuvole temporalesche si addensavano nel cielo, velando anche la luce delle stelle. I soldati sonnecchiavano oppressi dalla stanchezza.
    Ma Liciniano, temendo una fuga col favore delle tenebre, accese una piccola lucerna fumigante. No. il liberto di Eugenio poteva stare tanquillo: la sua prigioniera dormiva placidamente, come Pietro fra le guardie, con la stessa tranquillità con la quale avrebbe riposato sul suo morbido letto, fra le pareti sicure della casa paterna.
    Nel cuore di Liciniano, indurito dal vizio, non penetrò neppure una scintilla di pietà, tuttavia anch'egli non poté fare a meno di pensare che quella che egli conduceva ora, come prigioniera, nell'ergastolo della villa di Eugenio, avrebbe potuto essere, soltanto che l'avesse voluto, la sua padrona ossequiata, riverita da un centinaio di schiavi, coperta di gemme, prevenuta dallo sposo in tutti i suori minimi desideri. Anche nella sua dura cervice balenò per un istante l'intuizione che sotto quella faccenda c'era alcunché di misterioso.
    Le vie del Signore sono infatti arcane e imperscrutabili. Ciò che agli occhi del mondo è scandalo, obbrobrio, stoltezza, dinanzi a Lui è sapienza, guadagno, vittoria.
    Che cosa saresti divenuta, o Vittoria, se avessi resistito all'invito divino? Avresti trascorso tranquillamente la vita fra gli agi e le ricchezze, praticando un cristianesimo imborghesito dalla mancanza stessa di prove e di avversità. Avresti guidato Eugenio alla Fede? O la tua stessa Fede piuttosto non si sarebbe a poco a poco illanguidita? O Vittoria, quale gloria non avresti perduto se il Cristo, stanco della lunga attesa, non ti avesse gettato nel crogiolo ardente del dolore!
    Intanto un'alba livida e tempestosa, foriera di temporale, sbiancava lentamente il cielo, sul quale si profilavano assai vicine le aspre cime dei monti sabini.
    Ma il silenzio d'intorno incombeva pesante. Il gallo non aveva ancora cantato, né il solerte villico era ancora balzato giù dal povero giaciglio, per ricominciare la sua laboriosa giornata, quando Vittoria, ad una scossa più brusca del carro, si destò. Si guardò intorno trasognata per un istante, capì che non sognava, poi si strinse ancor più forte ad Anatolia.
    Dopo pochi minuti, alcune case coloniche più fitte e l'acciottolato della strada, annunziarono che stavano entrando in un centro abitato. Liciniano scambiò rapide parole con il conducente, il quale fermò bruscamente il carro, poi, seguito da uno dei soldati, si dispose a scendere, dopo aver ingiunto rudemente a Vittoria di seguirlo. 
    L'ora della separazione era giunta.
    Anatolia la strinse a sé senza far motto e segnò col dito una piccola croce sulla sua fronte abbassata. Vittoria ricambiò con muta passione quell'abbraccio estremo: l'angoscia le serrava la gola. Si guardarono un istante negli occhi e le luminose iridi azzurre di Vittoria, ancora assetate di vita e di amore, risposero nel loro linguaggio alla domanda che si leggeva nelle dolci pupille brune di Anatolia, già sperdute nella visione dell'eterna luce:
    - Si, sarebbe stata forte, l'avrebbe mantenuta la sua promessa di saper amare fino alla morte...
    Poi il conducente frustò i cavalli e il carro partì veloce. Non dovevano più rivedersi quaggiù. Vittoria, finché poté, seguì con lo sguardo il veicolo che si distingueva appena n quella luce incerta e che diveniva sempre più piccina, finché scomparve del tutto ad una svolta.
    Si scosse. Era proprio sola. Provò un istante di sgomento. Sola, in balìa di quell'uomo crudele che la guardava con espressione beffarda. Sola e indifesa in quel paese sconosciuto, in quell'alba buia e triste. Il freddo pungente del mattino la faceva rabbrividire, le sue membra erano spezzate dalla veglia e dal giaciglio insolitamente scomodo di quella prima notte di passione; la notte delle sue nozze! Acuti morsi le attanagliavano lo stomaco. Non mangiava da circa ventiquattro ore: dal suo ritorno dalla catacomba. La sua mente tornò a quell'ora beata e quel ricordo le diede un po' di forza. Sentì che mai come allora lo Sposo le era vicino.
    Intanto Liciniano si era mosso. Bisognava tenergli dietro. Il soldato la seguiva.
    Trebula Metuesca si adagiava sul dolce pendìo della collina. Attraversarono le strade strette, fiancheggiate da miseri abituri anneriti e disadorni. Qua e là qualche finestra si spalancava e gli artigiani più mattinieri cominciavano pigramente ad aprire le loro povere bottegucce e ad esporre le loro mercanzie. Tutti guardavano meravigliati gli insoliti passanti.
    Man mano che avanzavano, la via campestre che avevano preso si allargava e le abitazioni si diradavano. Quella strada non era fiancheggiata da misere casupole di artigiani, bensì da superbe ville patrizie, circondate da splendidi giardini.
    La villa di Eugenio era la più alta in cima alla collina. Anche se Liciniano non avesse indirizzato colà i suoi passi, Vittoria l'avrebbe subito riconosciuta. Non gliela aveva forse minutamente descritta Eugenio, in quella sera ormai lontana delle nozze di Lucilla?
    Ecco la casa sontuosa, tutta ammantata di verde.
    Ora però soltanto tenere foglioline brillanti spuntano come gemme dai fusti inariditi. Sembra che un velo grazioso, dalle trame ancor larghe, sia stato gettato sulla villa. In estate inoltrata, colonne, capitelli, muri, tutto scomparirà sotto il manto lussureggiante. Ecco l'incantevole giardino che degrada a larghe terrazze fino all'uliveto, il quale si estende lungo tutto il versante opposto della collina.
    Ecco la villa nella quale Vittoria avrebbe dovuto giungere sposa felice.
    Ecco il pergolato, sotto il quale, accanto ad Anatolia, avrebbe potuto placidamente discorrere del tempo beato della fanciullezza, guardando Eugenio ed Aurelio passeggiare sotto i mandorli in fiore...
    Questi pensieri attraversarono come un baleno la mente di Vittoria che li allontanò senza rimpianto, mentre il liberto, lasciata alla sua sinistra la casa silenziosa e come addormentata, scendeva a grandi passi verso l'uliveto.
    Non nella villa patrizia doveva ora posare la martire di Cristo, ma nell'ergastolo degli schiavi. Infatti, al limite dell'uliveto, sorgeva una costruzione bassa, squallida, dalle mura massicce, interrotte qua e là da qualche stretta finestra.
    Liciniano si fermò, lanciò un lungo fischio, poi, come se ciò non bastasse, assestò due potenti calci alla porta. Subito questa si aprì ed un'erculea figura di schiavo dacico nella corta tunica sdafatica, dal caratteristico capo rasato, curvò ossequioso la schiena dinanzi all'emissario più fidato del suo signore. Questi, senza preamboli gli chiese bruscamente:
    - Hai ricevuto i miei ordini?
    Il gigante si curvò ancora per dire di si.
    - E allora facci strada - riprese accennando a Vittoria.
    Lo schiavo spalancò per un momento la bocca dalla meraviglia, sbarrando contemporaneamente i grandi occhi, poi si riprese e si incamminò frettoloso.
    La casa - prigione degli schiavi impenitenti - era divisa da uno stretto corridoio, ai lati del quale si aprivano alcune celle di diversa grandezza. La guida che precedeva Vittoria, aprì la porta massiccia di una di queste, accennando con la mano a Liciniano. Questi si fece avanti e, inchinando il capo, disse con un sorriso beffardo:
    - Signora, il nobile Eugenio vi destina questa dimora.
    Vittoria non rispose ed entrò. La porta si richiuse pesantemente.
    Rimasta sola, la fanciulla si guardò intorno sgomenta. In quella spelonca avrebbe dovuto languire chissà per quanto tempo, forse fino a morirvi di consunzione?
    Le pareti di quella cella bassa e stretta erano scure; sul pavimento ineguale, reso a bella posta ancor più aspro da cocci rotti emergenti qua e là, erano una stuoia con un po' di paglia - il suo giaciglio - e una rozza panca.
    Dalla stretta feritoia munita di due solide sbarre incrociate, lo sguardo poteva spaziare sul dolce pendio della collina, fino alla pianura grigia che sfumava nell'orizzonte lontano. Dalla nebbia leggera del mattino emergevano le foglioline argentee degli olivi, i cui tronchi tormentati e contorti facevano pensare a povere anime prigioniere che in un desiderio senza parole cercassero di sfuggire ai ceppi della terra nera verso la libertà radiosa del sole.
    Vittoria guardava mestamente questo spettacolo, quando alla finestrina apparve curioso il visetto d'un bimbo. Non poteva avere che cinque o sei anni. Era vestito poveramente, ma i bruni capelli dai riccioli ribelli accuratamente ravviati e un non so che di composto in tutta la personcina, rivelava la mano amorosa di una mamma. Il piccolo aveva gli occhioni spalancati in una muta interrogazione.
    Vittoria, scossa dalla sua dolorosa contemplazione, si avvicinò alle sbarre e lo interrogò.
    - Come di chiami, piccino mio?
    - Lino - rispose svelto quell'altro - mi sono appena alzato. La mamma sta mungendo la mucca laggiù nella stalla, - e stava per fuggire come un cerbiatto impaurito. Ma una lieve carezza della mano di Vittoria lo trattenne.
    - Perché tu sei qui dentro? - chiese improvvisamente, come se soltanto allora se ne fosse accorto.
    La fanciulla sorrise:
    - Perché amo Gesù - rispose poi gravemente.
    - Chi è Gesù? Anch'io voglio amare Gesù - disse d'un fiato il piccino con la volubilità propria dei bimbi.
    - Ebbene, vieni qualche volta a trovarmi ed io ti dirò chi è.
    Il fanciullo fece cenno di si col capino bruno, poi fuggì giù per il pendio erboso verso una casetta tuffata nel verde.
    Un raggio di sole in quel momento, vinta la nebbia, brillò attraverso le fronde pallide degli ulivi e dipinse di oro tenue la buia parete della cella.
    Vittoria sorrise ancora. Una pace larga, possente, ristoratrice, simile a quella della notte della sua prima offerta scendeva nel suo cuore.
    Aveva ancora molto da fare prima di partire.
    In quell'ignoto fanciullo innocente Iddio le aveva mandato certamente il suo angelo affinché la confortasse nell'ora del Getsemani.
    

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