VITTORIA - Romanzo Storico - cap.IX

 IX - LA PROVA DEL TEMPO

    Un anno era già trascorso dal giorno in cui Vittoria era stata gettata a languire in fondo a quell'orrida prigione.
    Dalla finestra della sua celletta la fanciulla aveva visto nella valle sottostante biondeggiare la distesa dorata del grano, interrotta qua e là dal fiammeggiare dei papaveri, e gli alberi da frutta curvarsi sotto il peso del loro tesoro lussureggiante. Poi a poco a poco il cielo si era fatto di un azzurro più pallido, le foglie degli alberi erano diventate rosse, mentre sotto i pampini fronzuti, ai raggi del sole, s'indoravano i grappoli della vite. Le gaie canzoni dei vendemmiatori erano giunte fino a lei nei dolci meriggi e nei tramonti di fuoco. Attraverso l'atmosfera cristallina erano brillati dinanzi ai suoi occhi, i colori smorzati e meravigliosamente fusi dell'autunno.
    Ma a poco a poco, il vento sempre più gelido aveva staccato ad una ad una le foglie morte degli alberi, mentre gli ulivi gemevano sotto le sue terribili sferzate.
    Tutto si era fatto squallido: non un fiore, non un virgulto. Poi una mattina la cima del Soratte era apparsa sullo sfondo plumbeo del cielo, tutta incappucciata di bianco, finché la candida fata era scesa lentamente sui campi e sui casolari, ovattando ogni cosa di candore e di silenzio. Sugli alberi scheletriti, i poveri passerotti saltellavano intirizziti. I villici passavano nelle stalle le lunghe sere accanto ad un allegro fuocherello. A volte, quando l'uscio della casetta a mezza costa si spalancava per un istante, Vittoria ne vedeva il tremulo bagliore.
    Nella sua umida prigione faceva tanto freddo! Certo, senza l'aiuto divino la fanciulla non avrebbe potuto sopportarlo.
    Ma a poco a poco, secondo il ritmo incessante segnato dall'Eterno, la natura si era risvegliata dal torpore invernale, sotto le prime carezze del vento meridionale. La neve si era disciolta, il cielo, solcato appena da soffici nuvole bianche, era poi diventato terso e luminoso. Sugli alberi, sui tralci delle viti, sulle zolle ancor umide dallo sgelo recente erano apparsi i primi germogli. Tutta la campagna era in fiore. I contadini erano affaccendati nei lavori della potatura, i bimbi finalmente liberi riempivano l'aria delle loro voci argentine.
    L'estate si avvicinava a grandi passi.
    In una sera di quella primavera inoltrata, Vittoria, come era suo costume a quell'ora, si era inginocchiata sul nudo pavimento per la preghiera vespertina, prima di distendere le sue povere membra sul rude giaciglio.
    Ma un'inquietitudine strana e una tristezza opaca le pesavano sul cuore.
    La giornata era stata incantevole: d'un incanto sottile e ammaliatore. Le immagini che più l'avevano colpita non potevano cancellarsi dalla sua fantasia eccitata. ...Sul cielo di un azzurro quasi irreale, i peschi ed i mandorli fioriti di bianco e di rosa disegnano trame delicate di fantastici merletti, le rondini sfrecciano brune e sottili verso il sole. Tutta la natura canta il suo trionfale inno alla vita.
    Nell'ora del crepuscolo poi, quando il sole tinge di porpora e d'oro l'azzurro languido e le montagne violette, giù dalla valle salgono fino a lei le gaie canzoni dei garzoni che tornano dal lavoro. Dai viottoli della montagna le fanciulle, scendendo verso il piano, incontrano i giovani che cantano a voce spiegata le gioconde canzoni villerecce: gli sguardi si incrociano, timidi dapprima, poi più arditi: infine le coppie si allacciano, i canti si fondono per lanciare l'ultimo trionfante stornello: "Amore, amore!".
    Le giovani mamme, sedute sulla porta di casa, porgono il seno all'ultimo nato che s'addormenta infine sazio con i labbruzzi ancora aperti e protesi, e conversano tranquille con le vicine, mentre danno di tanto in tanto un'occhiata ai bimbi più grandicelli, che giocano felici con la polvere della strada.
    Ma a poco a poco sono scese le ombre ed è sorta la luna: una luna piena e meravigliosa. Sotto il raggio d'argento i fiori dei peschi e dei mandorli, le foglie grige degli olivi sembrano animarsi. Tutta la campagna beve quel magico chiarore che sembra ristorare le zolle come una pioggia benefica.
    Sugli steli sottili e minuscoli del grano appaiono e scompaiono le lucciole. Una vertigine di mille profumi sale fino alla feritoia della prigione. Sul muro della cella l'ombra delle sbarre disegna una grande, austera croce, resa ancor più nera dal chiarore del nimbo lunare...
    Vittoria tenta di scuotersi da quell'incanto pericoloso, perché sente nell'aria odor acre di battaglia.
    L'infernale dragone la circuiva, per avvolgerla e soffocarla nelle sue spire. Le privazioni, le angherie, le intime pene avevano spezzato l'organismo delicato della fanciulla. La crudeltà di Liciniano verso di lei era raffinata. Ogni giorno le faceva portare un tozzo di pane, ma soltanto verso sera. Durante tutto l'inverno, terribilmente rigido, aveva lasciato che Vittoria giacesse alla notte su di una nuda stuoia, attraverso la quale l'umidità e il gelo del pavimento le penetravano nelle ossa.
    Eugenio, ritornato dalla Mesia nel dicembre dell'anno precedente, dopo la morte dell'imperatore in quelle lontane regioni, era venuto più e più volte a turbare con la sua presenza la pace e la serenità della dolce martire.
    Dapprima era ricorso nuovamente alle lusinghe della tenerezza: le aveva parlato a lungo delle sofferenze da lui sopportate nella guerra, della tristezza della sua vita solitaria, poi era passato a proposte alle quali Vittoria aveva risposto con uno sdegnoso rifiuto:
    - Venire con te? Ma non sai che la strada per raggiungere la casa del mio Sposo, è quella della sofferenza e del martirio? Non sai che a questo soltanto anela il mio cuore? Il Suo Amore è casto, pure le sue carezze, e la Sua fidanzata resterà sempre vergine. Eugenio, non mi parlare più di queste cose, ma cedi anche tu alla Sua regalità d'amore.
    Vittoria sperava ancora di conquistarlo al suo Signore. Ma quando Eugenio le impose di seguirlo nella sua villa, la fanciulla gli rispose con una sola frase, veramente degna di una vergine cristiana e di una patrizia romana:
    - Sono la tua prigioniera, posso essere la tua vittima, non sarò mai la tua ospite.
    Allora il giovane perse il lume degli occhi. La coprì di ingiurie e poi, con la crudeltà di una belva, ordinò che fosse messa per alcune ore nei ceppi e che per tre giorni fosse lasciata completamente senza cibo.
    Il tormento dei ceppi era terribile. Con le membra dolorosamente stirate, distesa sul pavimento tutto cocci e scabrosità, Vittoria lo sopportò senza un lamento, lieta di potersi sentire un po' sulla croce col suo Salvatore.
    La sua fresca giovinezza, nell'ombra e nell'umidità della prigione, sfioriva rapidamente. Soltanto i suoi occhi conservavano ancora il dolce azzurro e lo splendore di un tempo.
    Ma alle prove fisiche, si aggiungevano i tormenti morali. La sua sensibilità era continuamente ferita dal contatto giornaliero con la gente rozza e grossolana, cui era affidata in custodia.
    Soltanto il piccolo Livio aveva mantenuta la sua promessa, venendo di tanto in tanto a trovarla, ora attraverso la finestrina, ora riuscendo, in un momento nel quale la vigilanza era allentata, ad introdursi nella cella. Vittoria allora gli parlava del Cristo così dolce e così buono con i bambini, della felicità del Paradiso, della Vergine soave e bellissima, degli angeli d'oro... Il piccino l'ascoltava estasiato. Era quello il primo fiore che profumava il suo esilio.
    Dei suoi cari non aveva alcuna notizia. Che facevano i suoi genitori? Sapevano nulla della sua sorte?
    E Anatolia dov'era? Viveva ancora?
    La congiura del silenzio la circondava. Vedeva a volte dalla sua finestrella passare rapide le donne che si recavano ad attingere acqua alla fontana e i contadini che tornavano dal lavoro, ma nessuno si curava di lei, anzi sembrava che un ordine preciso li tenesse lontani dalla sua prigione.
    Ma soprattutto il genere di quel martirio logorava la sua resistenza. Il tempo scorreva lento e inesorabile, la sua giovinezza languiva, le sue forze declinavano giorno per giorno: il calice della passione di Cristo le era porto goccia a goccia.
    Ella sarebbe morta come un oscuro malfattore nell'ergasotolo degli schiavi.
    Che desolante teatro per la morte di una creatura vibrante di entusiasmo e di audacie eroiche, come Vittoria!
    Non un amico, non un fratello nella fede avrebbe sorretto la sua costanza e avrebbe portato ai suoi cari l'ultimo saluto e le particolarità del suo martirio.
    Il suo sangue verginale non avrebbe bagnato la nobile arena dell'anfiteatro, santificata dal sangue di tanti altri confessori di Cristo, la sua professione di fede non sarebbe risuonata alla vivida luce del Foro, dove, nella turba degli spettatori, avrebbe potuto scorgere il volto di un amico e udire forse una furtiva parola di benedizione. Neppure avrebbe provato quell'ebbrezza suprema, certo inconscia, che le urla e le ingiurie della folla pagana, ammassata sulle gradinate del circo, eccitano nel martire intrepido ed inerme.
    No: ella è sola nel carcere degli schiavi; sola con un aguzzino snaturato e coi suoi segugi crudeli. La sua suprema immolazione somiglierà piuttosto ad un oscuro assassinio che ad una gloriosa confessione di Cristo, sembrerà una vendetta di banditi anziché un martirio.
    Di solito Vittoria non si curava di questi pensieri, anzi li disprezzava altamente. Sapeva di avere per testimoni gli Angeli del cielo e soprattutto sapeva che quanto più il suo soffrire era nascosto agli occhi degli uomini, tanto più era noto a quelli dello Sposo. Capiva anzi che l'oscurità stessa del suo martirio era più conforme alla passione ignominiosa del suo Signore.
    Ma quella sera il rigoglio della natura in fiore sotto la calda carezza del sole primaverile, la malia della luce lunare, l'inno d'amore che da ogni parte della terra saliva verso il cielo, mettevano ancora più in risalto lo strazio della sua giovinezza martoriata in quel carcere buio.
    Il tentatore se ne accorse e sferrò il più terribile e decisivo dei suoi attacchi.
    Era quella l'ora in cui l'anima è piena di desideri strani ed inconsueti, di nostalgie struggenti, che non hanno l'ardire di turbarla alla luce del sole, ma che si affacciano insidiosi nelle ore crepuscolari. Ricordi malinconici, sogni pericolosi, pure soggestioni della fantasia?...
    Quella sera, nella sua celletta, Vittoria ricevé la visita di questi ospiti inquietanti.
    Rammentò forse la dolcezza della voce di Cornelia, quando vezzeggiava il suo ultimo nato? Rivide forse il rossore casto che si era diffuso sul volto di Valeria, quando, in un giorno ormai lontano, nel Foro, la giovane madre le svelò il segreto della dolcissima attesa? Oppure fu il ricordo delle nozze di Lucilla? Rivide forse il volto della bellissima sposa trepidante di gioia sotto il velo nuziale?
    Rivide fissi su di sé gli ardenti occhi di Eugenio imploranti in una muta supplica appassionata? Aveva l'impressione che un velo si squarciasse dinanzi ai suoi occhi. Era quella la felicità per una donna? Mai avrebbe messo la sua mano in quella d'uno sposo, mai avrebbe potuto vezzeggiare sulle ginocchia una creatura sua. Le fiaccole nuziali non si sarebbero mai accese per lei, ma forse, dopo un lungo soffrire, un rogo ardente avrebbe consumato il suo corpo delicato.
    Una folla di fantasmi si urtava nella sua fervida fantasia giovanile.
    Ecco: la villa di Eugenio si delinea sul cielo azzurro...  Fra le fronde degli alberi appena indorati dal sole mattutino cinguettano gli uccelli.
    Nell'aria limpida e tersa s'effonde acuto il profumo delle rose che spiccano fra i cipressi, i pini, le statue marmoree e le garrule fonti: rose candide come la neve, rosse come il sangue, giallo fuoco come le nuvole dei placidi tramonti: rose che ornano le aiuole, si avviticchiano alle colonne corinzie, ricadono come profumate cascatelle fra le arcate dell'atrio.
    Ai capitelli d'acanto bianche colombe hanno sospeso il loro nido. Dallo scalone marmoreo scende lentamente una giovane donna. Veste una morbida tunica bianca; i neri capelli sapientemente rialzati sul capo, sono fermati da un cerchietto di gemme. Fra le braccia regge un bel bimbo bruno dalle guance paffutelle, mentre un altro che si attacca alla sua mano, segue la mamma coi passettini frettolosi.
    Dal fondo del viale un giovane ufficiale si avanza festoso. Il piccino si stacca dal fianco materno e gli corre incontro agitando le manine e gettando piccole grida di gioia. La mamma sorride felice...
    Poi la scena cambia.
    E' notte. Nel cubicolo nuziale, profumato di nardo, rischiarato da lampade di bronzo corinzio, la giovane mamma indugia ancora prima di prendere riposo. Poi tacita si alza, bella nella lunga veste, nei capelli ondeggianti sulle spalle, solleva la pesante portiera ed entra in una piccola camera debolmente illuminata da una graziosa lucerna d'argento. Ai suoi passi una robusta nutrice sabina che veglia il suo ultimo nato, si leva in piedi rispettosa. Il visino del piccolo è carezzato lievemente dalla fiamma oscillante del lume notturno. Si china trepida sulla culla e sfiora con un bacio quella fronte pura. Ma il piccino apre meravigliato i suoi occhioni azzurri e le sue labbruzze, fresche come due petali di rosa, balbettano una divina parola: "Mamma...".
    La visione scompare.
    Ma la voce del tentatore risuonò distinta al suo orecchio; sottile e prolungata, diabolicamente maliosa, come quella di un invisibile violino, appena tocco da un magico archetto...
    La fanciulla lottava. Chiuse gli occhi, ma le visioni la ferivano attraverso il velo delle palpebre. L'aria diventò greve e ardente. Le sembrava che una nebbia sottile velasse ai suoi occhi persino la croce disegnata sul muro dall'ombra dell'inferriata: quella croce sulla quale aveva posato più volte lo sguardo smarrito per implorare soccorso.
    E la voce diabolica risuonò di nuovo dolce e beffarda:
    - Perché non cedi subito? Tanto non potrai resistere a lungo... Tanto vale che tu deponga ora questa fermezza prima di morire inutilmente di stenti... E quand'anche tu non soccombessi in questo carcere tetro e tornassi tra i tuoi, che cosa saresti per loro e per la stessa società? Non il ramo fecondo del glorioso tronco dei Fabi, ma il tralcio inutile che si recide dall'albero a primavera... Sei ancora giovane e il corpo presto riacquisterà il suo vigore... Vivi come le altre donne, prendi Eugenio in isposo, genera figliuoli. Ché, se desideri piacere a Dio, forse che altre sante donne non ebbero marito? Pensa a Sara, a Lia, a Ester, a Rachele... E forse che le donne sposate non amarono Cristo? E Perpetua e Felicita e Sinforosa?...
    Così insinuava quella voce benevola, presentandole come un nostalgico invito la dolce immagine della famiglia: la vita serena trascorsa accanto ad un essere caro nella giovinezza fiorente allietata dai figli e nella placida vecchiaia coronata di nipotini.
    Mai si era sentita così vicina all'abisso. Cadde in ginocchio coprendosi il volto con le mani e nell'impossibilità di articolare una qualsiasi preghiera, pronunziò il nome di Gesù. Subito, pronunziato quel Nome più grande di ogni nome, dinanzi al Quale fuggono scornati i demoni, mentre i cherubini nell'empireo si velano per riverenza la faccia, Vittoria sentì la terra salda sotto i suoi piedi e le affascinanti visioni scomparvero. Vi fu come una fuga disperata di esseri invisibili, l'aria divenne leggera e pura.
    Dopo l'agonia del Getsemani, il Signore le mandava un Angelo consolatore.
    Una figura bianca e sottile veniva infatti verso di lei sul raggio della luna. La visione si avvicina, prende contorni precisi. E' una fanciulla dagli ardenti occhi bruni che la guarda mestamente, sotto la corona di candide rose. Il suo seno ferito sanguina sotto la bianca veste che si intride di tepide stille fiammanti. Vittoria manda un grido. La riconosce. E' Agata, la vergine della catacomba, la martire invitta di Cristo. Sotto lo sguardo di quegli occhi che esprimono insieme un dolce rimprovero e un tenero amore, Vittoria sente acquetare in sé la tempesta che la scuote.
    Agata sembra volerle dire che quella ferita non duole, perché la mano soave del Cristo l'ha già risanata nella luce dell'eterna gloria.
    - O Vittoria, non sai che "se tu sei ferita, Egli è medico, se tu bruci dalla sete della febbre, Egli è fonte d'acqua viva; se tu sei oppressa dall'iniquità, Egli è giustizia; se tu hai bisogno di aiuto, Egli è la forza; se tu temi la morte, Egli è vita; se tu desideri il cielo, Egli è via?" (Sant'Ambrogio). O Vittoria, non sai, non te l'ha detto il Pontefice, nel silenzio della catacomba, che Egli è l'Amore?
    Vittoria comprese. Giunse le mani, continuò a ripetere il Nome salvatore, in un'implorazione appassionata, allo stesso modo che il naufrago, fra le onde tempestose prossime a sommergerlo, si attacca vieppiù alla tavola di salvezza.
    D'un balzo, dalle umide contrade terrene, dalle valli oscure e insidiose, lo spirito risalì sulle candide vette, aspre, ma baciate dal sole.
    Capì che soltanto il sacrificio e il martirio potevano renderla meno indegna dell'Amore.
    La prova era finita.
    Col cuore in tumulto, con le labbra tremanti mormorò la rinnovazione del suo atto nuziale: - Signore, tu conosci tutto, tu sai che io ti amo.
    Nell'alone candido e splendente del raggio lunare, la grande croce nera spiccava severa sulla parete della cella.
    Una tenerezza grande inondò il cuore di Vittoria.
    Comprese che il Divin Cireneo non l'avrebbe lasciata sola nella via dolorosa.


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