VITTORIA - Romanzo storico - cap. X

 X - TEMPESTA
    
    L'inverno aveva nuovamente coperto i monti sabini col suo candido mantello.
    Il colore indefinibile del cielo, ancora gravido di neve, si confondeva sull'orizzonte con quello della terra tutta bianca. Una brezza pungente consigliava i bravi montanari a raccogliersi nelle stalle fumose per riscaldarsi alla meglio all'umido tepore degli aliti dei loro animali, a chiudere ben bene l'uscio e a tappare ogni fessura delle povere capanne sconnesse.
    Ma nella celletta squallida di Vittoria, nessuno sembrava accorgersi del freddo e delle intemperie. Sedute accanto a lei sulla rozza panca, oppure sulla stuoia e sul pavimento, alcune fanciulle bevevano dalle labbra della vergine le sue parole. Un calore misterioso sembrava diffondersi fra quelle quattro gelide pareti, penetrava diritto fino al cuore e poi circolava per tutto il corpo a riscaldare ogni membro. Era il calore dell'amore fraterno. Era Cristo, divina fornace di ardente carità, che invisibile si trovava in mezzo a loro. Una serenità senza nome si leggeva in ogni sguardo.
    Eppure per quelle fanciulle rappresentava un grave rischio restare tanto a lungo accanto all'invitta vergine cristiana, specie in quei tempi nei quali, dopo la morte di Decio, la persecuzione contro i confessori di Cristo si riaccendeva più furiosa che mai sotto Valeriano.
    Vittoria aveva visto a poco a poco farsi il deserto attorno a sé.
    Cornelio, il dolce Cristo in terra, il Pontefice che aveva ratificato le sue nozze con l'eterno amore, era morto di stenti nel suo esilio di Centocelle.
    Anche Anatolia, la sorella dolcissima, l'anima dell'anima sua, seguiva ormai, con i cori delle vergini, l'Agnello immacolato dovunque Egli andasse, cantando il cantico misterioso che nessuno, tranne le anime a Lui consacrate, può ripetere. Condotta nel potere di Tito Aurelio nel territorio di Tora, dopo aver compiuto miracoli straordinari, guarendo i corpi, ma soprattutto riscattando le anime dall'impero di satana, il settimo giorno delle idi di luglio, la dolce vergine, mentre se ne stava immersa nell'orazione, fu trapassata da parte a parte con la spada.
    A poco a poco la candida colomba si era trovata sola.
    Ma dalla notte della terribile tentazione, il Signore aveva fatto capire alla vergine tutta protesa verso i padiglioni celesti, dove avrebbe potuto finalmente riposare, che qualche altra cosa ancora le richiedeva prima del grande volo. Vittoria disse dolcemente il suo si e si mise al lavoro, cercando di comprimere nel suo cuore la nostalgia del cielo.
    Da lungo tempo il piccolo Lino, che veniva fedelmente a visitarla, la supplicava con commuovente insistenza di versare finalmente sul suo capo l'acqua della salute che lo avrebbe fatto diventare figlio di Dio ed erede del Paradiso.
    Vittoria avrebbe voluto mandarlo da un sacerdote che probabilmente si sarebbe trovato nei dintorni. Ma comprendeva che egli, ignorandone il nascondiglio, nel cercarlo, si sarebbe certamente esposto al pericolo di cadere nelle mani dei pagani assetati come non mai di sangue cristiano.
    Un giorno le preghiere del piccolo catecumeno divennero accorate. Le sue assenze insospettivano i genitori che l'avevano interrogato. Che sarebbe accaduto se egli non fosse più potuto ritornare? Vittoria se lo domandò angosciata e comprendendo la volontà del Signore ruppe gli indugi. Avrebbe strappato quell'anima all'impero di Satana.
    Ma, guardandosi intorno, si accorse che nella prigione mancava l'acqua. Gliene avrebbero portato una piccola brocca verso sera, assieme al solito tozzo di pane. Intanto Lino continuava a pregare. Colta da un'ispirazione improvvisa la vergine giunse le bianche mani e pregò. Subito i Serafini portarono quella preghiera fino al trono dell'Eterno. Cristo sorrise guardò con amore la sua piccola sposa. Improvvisamente, dal pavimento corroso della buia prigione, zampillò una limpida fonte che, gorgogliando argentina, si perdeva poi tra le connessure della pietra. Vittoria, ringraziando il Signore, attinse a piene mani dalla sorgente miracolosa e pronunziando le parole sacramentali asperse dell'acqua cristallina la testa curva del fanciullo.
    Gli angeli aleggiavano sorridenti sulla scena soave.
    La voce del prodigio si sparse rapidamente. Si era nel colmo dell'estate. Dapprima il soldato di guardia, poi i contadini dei d'intorni accorsero a guardare meravigliati la fonte d'acqua gelida che spandeva in tutta la cella una piacevole frescura.
    Fu così che agli occhi di quelle semplici genti della montagna, Vittoria apparve come una sacerdotessa, come una dea.
    Sembrò da quel momento che Cristo si divertisse a rendere prodigiosamente benefica la mano della sua fedele sposa prigioniera. Le mamme le portavano i loro bambini ammalati e, sotto la sua carezza lieve, il morbo crudele spariva improvvisamente.
    La fama di questi miracoli si diffuse in un batter d'occhio.
    Liciniano tentò di far tacere quelle voci che benedicevano la prigioniera di Eugenio, ma invano. Allora aggredì Vittoria con ingiurie e con minacce.
    Ma la vergine non si curava né delle benedizioni né degli insulti. Più che alla salute dei corpi, anelava alla salute delle anime che avvicinava. Chiedendo le parole opportune allo Spirito che la guidava, cominciò a parlare di Cristo e si accorse che ciò che diceva faceva breccia nei cuori più di quanto non avrebbe osato sperare.
    A poco a poco si formò attorno a Vittoria un gruppetto di fedeli che, con la compiacente complicità dello schiavo dacico e del soldato di guardia, anch'essi impressionati, se non addirittura conquistati dal fascino puro che emanava da quella straordinaria fanciulla, si raccoglievano intorno a lei per ascoltare le parole della vita eterna.
    Quanti catecumeni, in quei mesi di grazia Vittoria indirizzò, ormai istruiti e pronti al battesimo, ai preti dei Cimiteri romani e delle piccole comunità cristiane dei dintorni! La sua parola era dolce e persuasiva, ma soprattutto la fiamma interiore che le traluceva dagli occhi, riusciva a riscaldare anche i cuori priù freddi, ad ammollire le anime più indurite.
    Ma il Cristo volle fare alla sua apostola fedele un altro dono tutto particolare. Volle farle cogliere dalle aiuole della grazia alcuni fiori particolarmente candidi e profumati: le anime vergini. Ad alcune fanciulle innocenti Vittoria fece comprendere la parola che non a tutti è dato capire ed esse corsero felici dietro di lei, all'olezzo degli inebrianti profumi dello Sposo.
    Ad esse Vittoria apriva la parte più intima del suo cuore, ad esse parlava delle eroine di quella virtù celeste che rende delle povere creature impastate di materia, simili agli spiriti purissimi che vedono sempre la faccia dell'Eterno.
    Raccontava di Tecla, discepola dell'Apostolo delle genti, la prima fanciulla che nella remota età apostolica, affascinata dalla parola ardente del meraviglioso straniero, aveva sparso gioiosamente per Cristo il suo sangue verginale, di Petronilla, la soave figlia spirituale del primo Papa, mite ed obbediente fino alla morte che segnò per lei l'ora delle nozze eterne; di Flavia Domitilla, la principessa imperiale che preferì al diadema gemmato, la candida corona di sposa di Cristo, di Cecilia, maestra di celesti armonie, di Prassede, di Prudenziana, di Blandina...
    Questi esempi luninosi, queste storie di eroismi e di purezza angelica, lungi dal meravigliarle, rispondevano pienamente all'anelito delle loro anime, insoddisfatte, dalle menzogne delle varie correnti filosofiche, nauseate dalle sozzure dei costumi pagani.
    Ma il divino Amico, che non si lascia mai vincere in generosità, riservò alla generosa fanciulla una suprema ed insperata consolazione.
    Anche il piccolo Lino, dopo il miracoloso battesimo, continuava a visitare fedelmente Vittoria. A lui la vergine parlava a lungo della vita di Cristo, del suo desiderio di essere amato dagli uomini, delle fatiche degli Apostoli che, poveri e ignoranti com'erano, convertirono il mondo.
    Un giorno, dopo che ebbe ascoltato dalle sue labbra la storia del diacono Stefano, il piccolo uscì in queste parole:
    - Anch'io voglio fare come lui! Io però voglio anche far scendere Gesù nel pane e poi darlo a tutti i bambini... e anche ai grandi...
    Vittoria sorrise. Ora poteva cantare il suo: "Nunc dimittis". Una candida schiera di Vergini prudenti l'avrebbe scortata lungo la via del calvario fino alle nozze...
    Ma sulla Croce del suo sacrificio vedeva apparire un altro Cristo e distendervisi ancora per salvare gli uomini. Quell'altro Cristo aveva i lineamenti di Lino, gli occhi di Lino, le labbra di Lino; assomigliava perfettamente alla sembianza del bambino, nato alla grazia, all'ombra del suo lento martirio.
    Il Signore aveva permesso che né Eugenio, né Liciniano ostacolassero l'opera d'apostolato intrapresa dalla vergine. Anzi quest'ultimo tollerava che qualcuno visitasse Vittoria e faceva le viste di non accorgersi se i buoni villici le portavano qualche frutto o un po' di pane per rendere meno dura la sua prigionia.
    Ma quando i tempi furono compiuti, allora il Cristo ebbe pietà della sua colomba esiliata e si apprestò a cogliere il suo giglio fragrante.
    Gli uomini non sono che poveri strumenti nelle mani dell'Eterno. Difatti Liciniano, quando, irritato dal moltiplicarsi delle visite nel carcere e dalla venerazione sempre crescente della quale la martire veniva circondata, temendo soprattutto di essere accusato per poco zelante, avvertì Eugenio dello stato delle cose, non credette certamente di eseguire a puntino il volere dell'Altissimo.
    Vittoria se ne stava dunque, in quella rigida giornata di dicembre, tutta intenta a raccontare alle nuove reclute di Cristo la stora di Agata, la sua dolce sorella celeste, che tante volte l'aveva soccorsa nell'asprezza del cimento. Le fanciulle erano attente alle sue parole. Udendo la descrizione dei terribili supplizi inflitti alla vergine catanese, tutte trattenevano a stento il pianto. Anche i dolci occhi di Vittoria erano pieni di lacrime.
    Quand'ecco un improvviso scalpitìo di cavallo, un suono di passi concitati, uno stridere di catenacci... La porta si spalancò ed apparve Eugenio.
    Vittoria fece appena in tempo a congedare con un cenno le sue ascoltatrici che somigliavano ad uno stormo di colombe spaurite, poi, serena e dignitosa, si fece incontro al patrizio. Nessun segno di timore appariva in lei, nessuna pallidezza o eccessivo rossore che denotasse eccitamento si notava sul suo volto.
    Al vederla, Eugenio che da lungo tempo si era tenuto lontano da quel luogo, quasi atterrito da una oscura minaccia, non poté trattenere un gesto di ammirazione.
    Tanti mesi non erano passati invano. Sebbene sbocciata nel buio di una prigione, la giovinezza di Vittoria era in fiore. Ella non era più l'adolescente del loro primo incontro, ma una splendida fanciulla che toccava ormai i diciotto anni. La sua personcina armoniosa si era meravigliosamente sviluppata, sulle sue guance si spandeva un lieve rossore verginale, ma nei suoi occhi splendeva ancor più ardente il riverbero di una viva fiamma interiore.
    Mai Eugenio l'aveva vista più bella e più affascinante. Tornato in sè dopo il breve smarrimento, riaccesasi la sua violenta passione, egli la investì con una sequela di ingiurie:
    - E così non ti è bastato, Vittoria, il farti gioco di me, ma nella mia stessa casa, sotto il mio tetto, tu ti adoperi a conquistare nuovi adepti alla tua setta, nemica dello stato e dell'Imperatore?
    - La verità, Eugenio, non può essere a lungo tenuta nascosta - rispose tranquillamente la vergine. - Se io non parlassi, Iddio troverebbe altri mezzi per farla conoscere, ma se io la nascondessi volontariamente, peccherei, perché questo tesoro mi è stato consegnato affinché io lo faccia brillare agli occhi di tutti.
    - Finiamola con queste inutili storie. Per l'ultima volta vengo ad offrirti la libertà e la felicità. Rinunzia alle tue sciocche illusioni, accetta la mia offerta. Sei ancora in tempo per salvare te, per salvare i tuoi genitori che muoiono di dolore e di angoscia.
    A queste parole Vittoria trasalì, mentre sul suo volto sbiancato scorsero lacrime ardenti.
    Eugenio già si credeva vittorioso, quando, riacquistata la calma e la serenità, Vittoria, giungendo le mani disse:
    - Troppo stolta sarei se per una felicità effimera e passeggera tradissi il mio Signore. In quanto ai miei genitori, sono certa che Iddio veglierà su di loro.
    - Sciagurata! - gridò Eugenio - non sai che tu sei in mio potere e che oltre alla vita posso toglierti qualche ocosa che forse ti è più cara?
    - Nulla temo - rispose la vergine - nulla temo perché so a Chi ho consacrato la mia fede. Eugenio, stanne pur sicuro, l'angelo che veglia continuamente su di me, non permetterà che l'ancella del suo Signore sia profanata. Cessa dunque, ti prego, queste indegne molestie. La mia decisione è irremovibile.
    - La tua sorte è segnata - gridò furibondo il patrizio - morrai!
    E serrando i pugni, fulminandola con un terribile sguardo, stava per uscire dalla cella. Ma Vittoria ebbe ancora il tempo di mormorargli dolcemente queste parole di pace: - Iddio ti perdoni, come io ti perdono, Eugenio! Possano un giorno i tuoi occhi aprirsi alla luce!
    Il giovane sparì.
    La scena si era svolta molto rapidamente.
    Era stato quello il duello decisivo fra i due contendenti; era quella l'ora della vendetta e della Vittoria, del delitto e del trionfo. L'Angelo della luce e lo spirito delle tenebre erano venuti allo scontro finale.
    La vergine infatti, tutta candida nella sua veste bianca e nel suo volto luminoso, splendeva in mezzo alla buia prigione rischiarata debolmente dalle ultime luci, come una creatura celeste, mentre il torvo tentatore, avviluppato nel suo nero e pesante mantello, il cappuccio calato sugli occhi fiammeggianti, sembrava veramente un tenebroso satellite dell'infernale dragone.
    Il cielo intanto, illuminato appena dal fugace bagliore di un livido tramonto, si era improvvisamente coperto di nuvoloni neri. Quando Eugenio uscì o meglio fuggì dalla cella di Vittoria, l'acqua cadeva a rovesci, i lampi solcavano paurosamente il cielo e il tuono rombava cupo. Prima che gli schiavi potessero proferir parola, Eugenio era già curvo sul collo del cavallo, ficcandogli nel ventre gli speroni.
    Il galoppo risuonò sinistro sulla crosta della neve gelata.
    Eugenio fuggiva come un pazzo dalla prigione della sua vittima. La certezza che il momento in cui il suo delitto sarebbe stato consumato si avvicinava inesorabilmente, gli stava dinanzi, come un'orrenda Erinni. Si agitavano terribili nel suo animo le passioni più basse e spregevoli: il rimorso lo dilaniava; lo pungeva la vergogna e l'orgoglio ferito. Era vero: una semplice inerme fanciulla lo aveva vinto, né la spada che le pendeva sul capo, aveva potuto piegarla ai suoi voleri. Allora tutte le passioni che si urtavano nel suo animo, si mescolarono e si confusero in un solo sentimento amaro, terribile sinistro: l'odio.
    Uccidere, uccidere una fanciulla pura che aveva suscitato nel suo cuore il primo vero palpito d'amore, vedere scorrere il suo sangue verginale, poter finalmente inebriarsi di vendetta. Sarebbe andato immediatamente a Roma da Giuliano, Pontefice massimo del Campidoglio, affinché inviasse subito un suo rappresentante a Trebula Metuesca.
    Il suo volto si contrasse in un ghigno pauroso. Non aveva ancora tolto gli speroni dai fianchi del cavallo, che questi, molle di sudore e grondante d'acqua, nitrì di dolore, s'impennò e prese a tremare violentemente. Eugenio lanciò un'imprecazione: un superstizioso terrore l'assalì. Chi mai l'inseguiva? No: era soltanto il rumore di un ramoscello schiantato...
    Tra il fragore del tuono, gli sembrò di udire ancora le soavi parole di Vittoria, le ultime che egli credeva aver udito dalle sue labbra: "Iddio ti perdoni, come io ti perdono". Non sapeva che da lontananze misteriose e inaccessibili la vergine gli avrebbe parlato ancora. Ma perché non terminava mai quella strada? Perché s'allungavano così quelle diaboliche ombre? Eugenio ripensò alla tagica cavalcata della sua ultima campagna fra le squallide pianure della Tracia, quando nel furore della mischia, l'imperatore si vide cadere accanto il principe imperiale colpito a morte e pronunciò cinicamente quelle sdegnose parole.
    - Non è nulla: un uomo di meno soltanto!
    Anche quella sera il temporale infuriava sinistro e uno strano terrore si era impadronito dei soldati. Ma allora i nemici premevano intorno, si poteva vederli, affrontarli, e sgominarli con la spada... Nessuna notte gli era parsa più lunga e più terribile di questa.
    Un lampo, seguito da un fragore cupo, solcò il cielo.
    Chi si agita fra le orcce incrostate di neve gelata che fiancheggiano la strada? E' una giovane che gronda sangue dal seno ferito...
    Eugenio manda un grido: "Vittoria!"
    Oh poter costringere quel dannato cavallo a fermarsi... Ma il sauro galoppava, galoppava inesorabilmente.
    Eugenio diede uno strappo tremendo alle redini: ma invano: il cavallo non sentiva più la voce del padrone, né gli strappi dolorosi del morso... Temendo che la bestia fosse imbizzarita, il patrizio stava già per slanciarsi a terra, folle di terrore, quando vide da lontano brillare un lumicino: era giunto ad uno dei posti di cambio. Cinque minuti dopo gli schiavi accorsi fuori dalla bassa costruzione di legno, allo scalpitìo degli zoccoli ferrati, s'affrettarono, sotto i rovesci della pioggia, a condurgli un altro cavallo.
    Nel livido cielo in tempesta continuavano ad inseguirsi le nubi nere.


Nessun commento:

Posta un commento