VITTORIA - Romanzo storico - cap. XI

XI - L'AMORE PIU' GRANDE

    Quella mattina di dicembre i buoni montanari di Trebula Metuesca erano accorsi a frotte al tribunale. La notizia che Vittoria sarebbe stata tratta in giudizio e condannata, si era sparsa in un baleno fra le montagne sabine ed aveva gettato la costernazione in quei cuori semplici, i quali avevano facilmente intuito quale tesoro fosse racchiuso fra le tetre mura della prigione di Eugenio.
    Qunate lacrime aveva terso la dolce fanciulla! Quante volte il suo intervento misterioso aveva portato la gioia in quegli umili abituri funestati da luttuose sciagure.
    Quei poveri villici, dall'aspetto rude, non si potevano rassegnare al pensiero che fra qualche ora Vittoria se ne sarebbe andata per sempre.
    Erano accorsi coi loro arnesi da lavoro, alcuni anche con le loro donne e i loro bimbetti, quasicché sperassero che la loro presenza potesse scoungiurare in qualche modo la terribile sciagura.
    Il giudice teneva seggio all'aperto, dinanzi al piccolo tempio di Giove, che, tutto candido di marmi e splendente di dorature, posto sul punto più alto della collina, dominava l'intera vallata, innalzandosi superbo sulle povere abitazioni artigiane, tutte annerite e addossate le une alle altre, e gareggiando in splendore con le opulente ville patrizie che sorgevano isolate lungo il pendio.
    Eugenio, giunto a Roma dopo la terribile cavalcata si era recato immediatamente dal prefetto Giuliano, pontefice del Campidoglio, il quale, ascoltato il caso gli aveva promesso d'inviare al più presto a Trebula un giudice suo subalterno con pieni poteri. Questi si chiamava Taliarco, uomo oltremodo rozzo e crudele, il quale aveva già fatto spargere molto sangue cristiano durante la persecuzione di Decio e contava al suo attivo un buon numero di tradimenti, di rapine e di altre simili azioni vergognose.
    Mai egli avrebbe pensato che il processo contro quella vergine innocente gli sarebbe riuscito fatale, e, come l'ultima goccia, avrebbe fatto traboccare il calice della divina giustizia. Infatti, poco tempo dopo il suo viaggio a Trebula Metuesca, egli fu assalito da uno strano malore, mentre la sua destra, che aveva segnato la condanna della vergine, gli si copriva di una lebbra schifosa che in sei giorni lo conduceva alla tomba.
    Con fare tracotante Taliarco dunque, dall'alto del suo seggio, attendeva con impazienza l'arrivo della sua Vittima. Sedeva truce accanto a lui, la fronte cinta della bianca infula, il sacerdote del luogo, il quale si era ddato la briga di far trasportare fuori dal tempio un simulacro di Diana col relativo tripode acceso e l'incenso pronto per il sacrificio.
    Ad un tratto, la piccola folla si ritirò come inorridita. All'altro lato del semicerchio, tutto ravvolto in un nero mantello, col cappuccio calato sugli occhi, era apparso Eugenio. Il suo volto era quasi del tutto coperto, ma non era difficile accorgersi dal suo atteggiamento, che violente ed opposte passioni lo tormentavano spaventosamente. Se ne stava col capo abbassato, lo sguardo fisso duramente al suolo, quasi temesse di incontrare gli occhi dei circostanti che se lo indicavano silenziosamente a vicenda.
    Aveva creduto un tempo che quello sarebbe stato il giorno della sua amara vittoria, mentre si accorgeva ora che nessun supplizio avrebbe mai potuto eguagliare quello che lo tormentava in quei momenti in tutto il suo essere. Gli sembrava che il tempo avesse arrestato il suo corso e che ogni cosa si fosse pietrificata. Avrebbe voluto che quanto doveva accadere si compisse il più rapidamente possibile, mentre quei minuti gli parevano eterni.
    Finalmente il lieve mormorio della folla lo avvertì che la vittima si avvicinava. Avrebbe voluto fuggire, essere inghiottito sull'istante da un baratro...
    Invece alzò gli occhi e guardò.
    Vittoria camminava speditamente in mezzo ai soldati. Non le appariva sul volto verginale la minima ombra di smarrimento o di confusione, anzi nei suoi begli occhi brillava una viva fiamma d'amore, quasi che stessero fissando, oltre la sfera degli oggetti circostanti, l'Essere invisibile che rapiva il suo cuore. Traspariva poi da tutta la sua persona una certa impazienza, una nostalgia struggente, un'ansia ormai incontenibile di raggiungere finalmente l'Oggetto del suo amore. Il tempo dell'esilio era finito: la voce dello Sposo si faceva sentire dolce e invitante: "Sorgi, amica mia, colomba mia e vieni! Il triste inverno è passato..."
    E il suo cuore trasaliva di gioia, come quello di una giovane sposa all'annunzio dell'arrivo del suo sposo colmo di magnifici doni, giunto per condurla nella sua nuova dimora.
    Tutta la natura poi sembrava voler cantare con lei il suo inno festoso. Era una di quelle liete giornate d'inverno che si possono spesso ammirare sotto il bel cielo della campagna laziale.  Dopo i temporali delle giornate precedenti, neppure una nube offuscava il sereno. Il sole era splendido, l'atmosfera trasparente.
    Le aspre vette degli Appennini si disegnavano candide sull'azzurro intenso, e più accosto, il Soratte spiccava tutto incappucciato di neve come un gigante freddoloso. Persino gli alberi scintillanti di brina gelata mettevano un'altra nota di gaiezza primaverile in quello scenario incantevole.
    Soltanto gli alberi scheletrici e le viti spoglie di pampini stavano a testimoniare che quello era il mese di dicembre.
    Quando la vergine entrò, graziosa e serena nel semicerchio del tribunale, trascorse fra i convenuti un'onda di pietà e di ammirazione. In Vittoria infatti non era soltanto la bellezza esteriore quella che attirava tutti gli sguardi, ma qualche cosa di più intimo, di più misterioso che raggianva dalla sua persona. Le privazioni, le angoscie della lunga prigionia avevano infatti aggiunto al suo fascino un non so che di etereo e di immatriale che sembrava emanare da quel profilo diafano, da quelle labbra pallide, appena socchiuse, da quegli occhi troppo azzurri.
    Il suo corpo era veramente consumato dall'anima, che splendeva come vivida fiamma attraverso la lampada di tenue alabastro.
    Vittoria non si accorse e non si curò né del giudice né degli spettatori. Pensava a cose limpide e serene come il cielo di quella mattina. Guardava l'orizzonte azzurro, i monti lontani, la campagna spruzzata di bianco, le ville, i casolari e ringraziava il Signore. Si lasciava riscaldare dalla mite carezza di quel sole di dicembre che le infondeva un tepore dolce nelle membra intirizzite dall'umidità e dal gelo della prigione. Respirava a pieni polmoni l'aria pura delle montagne sabine, ammantate come lei di candore.
    Come erano belle, quella mattina!
    Come era luminoso il sole e il cielo!
    Forse era perché da tanto tempo non li godeva se non attraverso le sbarre di una stretta ferritoia...
    Come era bello andarsene cos', dolcemente dal suo Signore!
    Che importava se il messaggero che veniva a portarle l'annunzio dell'avvicinarsi della Sua celeste Bellezza era orribile e minaccioso? Che importava se soltanto attraverso i tormenti e la morte, Egli le avrebbe mostrato il Suo Volto fulgente?
    Certo, soltanto questi pensieri passavano nell'anima della martire...
    Nulla ella sapeva di quanto le riservava l'avvenire. Non vedeva sorgere in quel luogo medesimo nel quale si consumava il suo oscuro sacrificio, un tempio venerando che avrebbe ricordato nei secoli futuri il suo amore per Cristo, nel centro del quale una cisterna prodigiosa avrebbe fatto accorrere le turbe dei fedeli...
    Non poteva immaginare che la famiglia religiosa più illustre dell'Occidente avrebbe custodito gelosamente il suo corpo e l'avrebbe sottratto alle ingiurie dei Saraceni. Non le veniva in mente che una città sarebbe sorta sulle sue ossa gloriose, intitolata al suo nome, né che nella dolcissima teoria delle vergini nella basilica della città esarcale, ella pure avrebbe avuto il suo posto accanto ad Agata, a Lucia, ad Agnese, a Cecilia...
    Non poteva balenarle nella mente che il suo nome sarebbe stato registrato in tutti i martirologi e che per lunghi secoli, accanto a quello delle vergini sorelle, sarebbe stato invocato nella parte più augusta del Divin Sacrificio.
    No: ella vedeva soltanto dinanzi a sé una via immensa, risplendente di rosea luce che conduceva al cielo; e l'anima le si empiva di sconfinata serenità.
    La voce del giudice la distolse dalla sua estasi.
    - Vittoria - egli disse, cercando di dare alla sua voce un tono calmo e autorevole - la tua giovinezza, la tua nobiltà, la tua avvenenza mi muovono a pietà. Un solo atto di omaggio agli dei e alla maestà dell'imperatore sarà sufficiente perché tutto il passato sia cancellato e dimenticato. Sarai nuovamente ricca, felice, invidiata da tutti; la tua giovinezza fiorirà ancor più rigogliosa e più fulgente che mai. Cedi, dunque. Guarda: basta che tu lasci cadere nel tripode un solo granello di incenso. E se, come si dice, vuoi rimanere vergine, sacrifica a Diana, che protegge e difende le fanciulle caste.
    Vittoria allontanò con un gesto d'orrore il granello d'incenso che il sacerdote si era affrettato a porgerle; poi parò calma e serena e la sua voce melodiosa risuonò come un'armonia celeste per tutto il tribunale.
    - Sarebbero necessarie ragioni migliori per persuadermi, giacché tu mi vorresti togliere quelle cose delle quali io ringrazio ogni giorno Iddio e il suo Divin Figliolo.
    - Che vorresti dire? - l'interruppe bruscamente Taliarco.
    - Che ringrazio tutti i giorni Iddio di essere povera, perché in tal modo posso assomigliare di più a Cristo mio Sposo e Lo ringrazio ancor più ora, perché mi concede la grande ventura di soffrire un poco per Lui. Io sono Cristiana. Io disprezzo le tue divinità bugiarde e non posso amare e servire altro che l'Unico Vivente Iddio. A Lui solo offro un'ostia di lode e di ringraziamento, pregandolo di accettare il Sacrificio di tutta me stessa.
    A queste parole Taliarco non poté più contenersi. Messa da parte ogni dignità di giudice, si diede a conoscere per quel rozzo e volgare bifolco che era. Investì dapprima la giovanetta con una caterva di ingiurie e poi, tutto furente d'ira, firmò la condanna.
    L'accusata era condannata alla decapitazione. Vittoria, che aveva sostenuto impavida quel fiume d'ingiurie, quando udì la sentenza, alzò i begli occhi al cielo con un'espressione d'inesprimibile dolcezza.
    Secondo l'uso, la vittima doveva venir prima flagellata.
    Ad un cenno del giudice due littori si avvicinarono alla martire e, senza che questa opponesse la minima resistenza, la legarono per gli esili polsi ad una colonna che sorgeva a questo scopo nel centro del tribunale. Ben presto le psalle delicate della giovanetta, sotto i colpi crudeli delle verghe, apparvero segnate di lividure; poi la pelle sottile si stracciò e strisce di sangue rigarono quelle carni innocenti. Vittoria sopportava serena quel tormento terribile. Lo strazio dei colpi le andava al cuore, è vero; i duri nodi delle funi le martoriavano i polsi, il sangue che cominciava a scorrere copioso le toglieva a poco a poco le forze.
    Ma fra il sillabare delle verghe, nello sfinimento supremo tanto simile alla morte, Vittoria guardava lontano. Vedeva la figura straziata, l volto pallido e mesto, tutto solcato di sangue, del suo Salvatore, flagellato come lei nel Pretorio di Pilato. Le parve che quegli occhi esprimenti un dolore indicibile, sotto la tremenda corona, le chiedessero sangue per sangue. Con tutto lo slancio del suo cuore la piccola sposa rispose di si. Allora il fischiare delle verghe intorno a lei le sembrò improvvisamente più dolce della carezza del mite zeffiro primaverile, il grandinare dei colpi, più lieve d'una pioggia di candidi petali di fiori.
    Sentì il vigore perduto tornarle nelle vene; sentì nel cuore un desiderio acuto di patire, di patire ancora, per amore del Martire Divino, i cui occhi sembravano ora guardarla senza sofferenza, sorridendo quasi per ringraziarla.
    Invece il supplizio era finito. Vittoria fu sciolta e, col viso pallidissimo e le spalle ammantate della porpora regale del suo sangue, fu nuovamente condotta dinanzi al giudice.
    Con la scure in pugno, il carnefice attendeva.
    L'ora era giunta.
    La dolce martire si inginocchiò, giunse le candide mani, i cui polsi conservavano le tracce livide delle corde; e pregò.
    La sua preghiera non fu che un ringraziamento.
    Vide in un istante dinanzi ai suoi occhi tutta la sua breve vita e le parve che soltanto una parola potesse esprimerla pienamente. Amore.
    L'aveva finalmente trovato l'Amore che cercava. L'aveva amato con passione, con dedizione assoluta: fino alla morte. L'aveva fatto amare da tante anime. Ora se ne andava a ricevere il Suo ampresso eterno. Vedeva una luce che l'aveva misteriosamente guidata fin dalla sua fanciullezza. Era lo sguardo dello Sposo che l'aveva amata di un amore eterno.
    Le sembrò di vedere Agata e Anatolia che la invitavano festyose a volare con loro oltre quelle montagne candide, oltrre quel cielo azzurro.
    Pregò per tutti. E non dimenticò Eugenio.
    Ora era pronta. Non aveva paura. Come poteva temere se il suo Signore già le porgeva la mano e la invitava a spiccare il volo?
    - Dolcissimo Re del mio cuore - mormorò - accetta l'offerta della tua piccola sposa, aiutala in questo istante supremo!
    Con le sue proprie mani stava già raccogliendo le chiome per esporre nudo il collo al colpo della scure, quando Eugenio si avvicinò furtivamente al carnefice e gli sussurrò poche parole. Il demonio gli aveva suggerito un ultimo, raffinato pensiero di vendetta. L'aguzzino si avvicinò a Vittoria, ancora prostata a terra, e, afferrandola violentemente per la destra, le immerse rapido la spada nel cuore.
    Dolcemente la martire cadde, adagiandosi al suolo come per dormire, mentre un fiotto di vivido sangue tingeva di porpora la sua tunica bianca. I limpidi occhi cercarono ancora un istante il cielo, poi si chiusero per sempre.
    Era il giorno X delle calende di gennaio dell'anno 253.
    Quel cuore verginale, già trapassato dal dardo del divino amore che tutto lo aveva acceso di celeste carità, quel cuore fedele che aveva voluto riservare i suoi palpiti soltanto allo sposo celeste, doveva essere squarciato come quello di Cristo, da una ferita d'amore.
    Nell'atto che la vergine cadeva colpita a morte, quasi tutti gli spettatori volgevano inorriditi il capo, mentre Eugenio, che aveva fissato con occhio fermo il colpo, atteggiò le labbra ad un crudele sogghigno di trionfo.
    Subito, mettendo a repentaglio la loro vita, le fanciulle di Trebula che avevano seguito Vittoria nei candidi sentieri ornati di gigli, dove il Cristo ama aggirarsi, accorsero a sollevare la spoglia della martire che sembrava dolcemente addormentata, le labbra ancora atteggiate ad un celeste sorriso, per trasportarla in un sepolcro scavato nel sasso vivo.
    La bianca colomba avrebbe riposato così nell'incavo di una roccia.
    In quell'istante medesimo, fra gli splendori dei Santi, il Re della gloria attirava a sé la sua piccola sposa fedele, per lasciarla riposare per sempre sul suo Cuore.
    Questo infatti è il gaudio eterno delle vergini.


FINE

Nessun commento:

Posta un commento