VITTORIA
ROMANZO STORICO
Dott. Vittoria Genovesi
Dott. Vittoria Genovesi
I. INCONTRI
Il tardo sole invernale non era ancora apparso sull'orizzonte.
Sul pallido cielo d'opale che si sbiancava lentamente, si stagliavano nette le masse scure dei pini che coseteggiavano l'ingresso di quella che sembrava una cava abbandonata.
Il silenzio era altissimo.
S'udiva di tanto in tanto il latrato di un cane lontano e, più raro, il cigolare delle ruote di qualche carro sobbalzante sulle pietre sconnesse della via Appia.
A poco a poco, dalle ombre scure degli alberi che si profilavano quasi minacciose sull'ingresso della cava cominciarono a staccarsi figure egualmente scure, tutte avvolte in pesanti mantelli invernali, col cappuccio calato sugli occhi, che si allontanavano in gruppetti frettolosi, dirigendosi verso la città.
Era la notte di Natale dell'anno 249.
I Sacri Misteri, celebrati con pompa solenne in quella notte di grazia, erano terminati; ed i fedeli ritornavano alle loro occupazioni quotidiane con l'anima inondata di gioia celeste.
Ma nella cripta maggiore della catacomba, nella quale, dato il pericolo di una imminente persecuzione, si celebravano le sacre funzioni, alcune persone si trattenevano ancora in preghiera. Dalle volte basse pendevano lampade d'argento di grande valore che rompevano la mistica penombra. L'aria era ancora impregnata dal profumo dell'incenso.
D'un tratto nella piccola folla passò un fremito di commozione e tutti i volti si rivolsero verso il basso ambulacro dal quale, con un fruscio di ori e di seta, incedeva il corteo pontificale. Il Santo Pontefice Fabiano, preceduto dagli accoliti e dai diaconi, si avanzava alto e solenne, eretto il capo canuto, l'occhio come assorto in una visione ultraterrena, la persona per nulla impigrita dagli anni.
Ascendeva a quella cattedra sulla quale si era assiso il pescatore di Galilea, per consacrare, egli, prima vittima della vicina persecuzione, le vergini di Cristo, che al candido giglio della loro castità desideravano ardentemente intrecciare la porpurea rosa del martirio.
Sebbene la "Velatio virginum" non avrebbe dovuto aver luogo che a Pasqua, pure, dato che l'avvento di Decio al trono imperiale segnava un nuovo pericolo per la Chiesa, il santo Pontefice aveva stabilito di anticiparla alla notte di Natale.
Fra le persone che, per ragioni di parentela o di amicizia, erano state invitate ad assistere alla sacra funzione, si notava tra le prime file una fanciulla, il cui profilo spirava tale luce di celestiale purezza da non poter ricordare che quello di un cherubino orante al cospetto di Dio.
Inginocchiata sull'umido pavimento, i limpidi occhi azzurri, velati da lunghe ciglia brune, fissi sull'altare, i bruni capelli disciolti sulle spalle, le piccole mani congiunte, abbandonate sulla tunica di diversa, ma di non superiore bianchezza, non dimostrava più di quattordici anni.
Amica di una delle vergini consacrande, Vittoria - tale era il nome della fanciulla - aveva potuto ottenere di assistere al mistico rito nuziale.
Ora, assorta nella preghiera, quasi non si rendeva più conto né del luogo nel quale si trovava, né della ragione che ve l'aveva condotta. La sua anima si schiudeva allora al mistero della vita. Vittoria cominciava infatti a provare quella insaziabile sete di amore, che di per se stessa postula l'infinito, la quale segna appunto il passaggio fra la fanciullezza e la prima gioventù.
Vittoria sentiva in cuor suo di essere qualche cosa di grande, di sublime, di eroico.
E i suoi occhi puri si posavano sulla figura del Buon Pastore, dipinta sulla parete centrale della cripta, in una muta domanda: "Quale acqua, Signore, spegnerà la mia sete? Dove troverò, mio Dio, quell'amore che appaghi il mio cuore? Dove, la felicità?"
Un canto dolcissimo, che proveniva dal fondo della cripta, la scosse. Volse il capo.
Reggendo una lampada ardente nella destra, una lunga teoria di fanciulle vestite di nero si avanzava verso l'altare. Le loro voci riempivano ora tutta la cripta, risuonando armoniosamente sotto la volta buia.
Tutti i presenti pensarono istintivamente alla parabola evangelica delle dieci vergini savie dalle lampade accese e dal cuore vigilante, pronte ad entrare con lo sposo nella sala del convito.
In mezzo alle brune vesti delle vergini si distinguevano quelle candide delle fidanzate, che in quel giorno avrebbero giurato al Mistico Agnello la loro fede di spose. I loro volti splendevano come illuminati da una luce interna.
Giunte dinanzi al Pontefice, le sei vergini consacrande s'inginocchiarono.
Tacquero i canti e la santa cerimonia incominciò.
Vittoria aveva subito riconosciuto fra ese la sua amica Giulia, alta e slanciata come un gladiolo, i biondi capelli ondeggianti sulle spalle, il volto spirante una beatitudine celeste.
Accanto a lei notò una fanciulla sconosciuta.
La candida stoia che indossava metteva ancor più in risalto la tinta dorata di quel volto dal purissimo profilo greco, leggermente aquilino, i capelli nerissimi, gli occhi profondi e vellutati. In quello stesso momento Anatolia che le stava vicino le sussurrò:
- Vedi la fanciulla inginocchiata accanto a Giulia? E' Agata; non ricordi? - E siccome l'altra accennava di no:
- Non ti ricordi della patrizia siciliana che aveva chiesto di essere consacrata da Papa Fabiano?
Vittoria allora ricordò vagamente che nella comunità cristiana si citava come esempio di attaccamento alla cattedra romana il caso di una giovane catanese che intraprendeva il lungo viaggio fino all'Urbe, proprio per vedere ratificato dal Pontefice Romano il suo mistico patto nuziale.
Vittoria la guardò di nuovo più attentamente e, siccome Agata era inginocchiata alla destra dell'altare e poteva vedere la prima fila dei fedeli, i loro sguardi per un istante s'incontrarono.
Colpita dall'espressione singolare di quelle pupille estatiche, la bimba pensosa avrebbe quasi voluto leggervi una risposta all'interrogativo che le lacerava l'anima: Dove la voleva il Signore? Dove avrebbe finalmente potuto "volare e riposarsi"? Si sarebbe anch'ella inginocchiata un giorno a pié dell'altare con la tunica bianca e la lampada accesa, fra i canti delle vergini e il profumo dell'incenso, oppure dinanzi all'atrio infiorato di una casa patrizia, alla luce festosa delle fiaccole, fra i canti degli inni ad Hymene, velata del "flammeum" nuziale, avrebbe porto ad un nobile romano la sua mano tremante? Questo sogno le afferrò il cuore.
Insensibilmente un'immagine distinta le occupò la fantasia: vedeva il bel volto maschio di Eugenio, il giovane tribuno amico di suo padre, che da qualche tempo frequentava la sua casa, sorriderle invitante.
Cercò di scacciare dalla sua mente quella visione.
"Signore, - pregò tacitamente - fa che alla tua Voce io sappia rispondere come la tua Vergine Madre: Sia fatto di me, secondo la tua parola".
Ora, dopo aver interrogato le vergini, il Santo Pontefice cominciava a parlare. Le sue frasi giungevano all'orecchio di Vittoria, come se fossero state pronunciate da una persona che già si beava degli splendori celesti.
"Ho trovato l'amore dell'anima mia; l'ho trovato e non lo lascierò" diceva con voce pacata ed insieme suadente il Pontefice, che poi, prendendo spunto dal versetto della Cantica, tessé l'elogio della verginità, nella quale l'anima si unisce direttamente all'oggetto di ogni amore, al Verbo Eterno, all'amore increato che per amore scese tra i figli degli uomini, per amore prese la loro carne e morì sulla Croce.
Agata ai suoi piedi beveva le sue parole: tutto il suo atteggiamento rivelava in lei, vera figlia dell'isola del sole, la passione e l'estasi. La fiamma dei ceri l'illuminava, un'espressione di beatitudine raggiava sul suo viso, il velo le era caduto dal capo: aveva le labbra socchiuse, gli occhi fissi sul Pontefice.
Vittoria pensava: "Come deve essere felice!"
Ora vedeva Fabiano che, terminato il discorso, poneva sul capo di ciascuna delle nuove spose una corona di freschi, candidi fiori, colti certamente nella serra di qualche casa patrizia. Quando fu la volta di Agata, una vergine già consacrata le si avvicinò e sorridendo le ricompose sul capo il bianco velo e vi fermò con arte la candida corona di rose postavi dal Pontefice, la quale sulla splendida chioma corvina formava un vaghissimo rilievo. Quando con la benedizione del Pontefice, l'assemblea si sciolse e i canti si spensero, Vittoria si levò e assieme ad Anatolia uscì dalla Catacomba.
La fulgida luce del sole le investì in pieno. Ristettero un attivo come abbagliate; poi, soltanto dopo qualche istante, le loro pupille, dilatate nella tenebra della Catacomba, si abituarono alla luce e furono in grado di guardarsi intorno.
La mattina, sebbene fredda, era splendida. il sole, fugate le nebbie leggere che velavano sull'alba l'orizzonte, indorava la maestosa strada consolare e tutta la campagna circostante. Le cime lontane degli Appennini erano bianche per la leggera neve caduta. L'aria, come spesso accade nei giorni sereni di dicembre, era di una trasparenza cristallina. Di contro al sole, come avvolti in un pulviscolo dorato, numerosi pini neri si slanciavano ansiosi d'azzurro verso la gloria del cielo latino e poi, ormai paghi d'altezza, sembravano placarsi allargando ad ombrello la bruna chioma.
Le due fanciulle camminavano lentamente, godendo della carezza del sole che metteva un po' di tepore nelle loro membra quasi irrigidite per l'umidità del sottosuolo e per l'immobilità delle lunghe ore in preghiera.
Alcuni servi le seguivano a una certa distanza.
Anatolia in silenzio passò il suo braccio sotto quello di Vittoria e la guardò affettuosamente. Sebbene fosse soltanto di tre anni maggiore, Anatolia amava Vittoria di un affetto quasi materno. In tutta la sua persona infatti, nei tratti delicati, ma fermi del suo volto, nei dolci occhi castagni, si rivelava ormai la donna, mentre l'esile figura della compagna era ancora quella di una bimba.
Ben a ragione però Anatolia considerava Vittoria come una creatura del suo cuore. Non aveva appreso dalle dalle sue labbra, ancora piccina, le prime parole di vita? Non era stata da lei condotta per mano, in una radiosa mattina di Pasqua, al fonte della rigenerazione? Non erano ora in tutto un sol cuore e un'anima sola?
Ora Anatolia guardava la sua compagna, tutta assorta come in una fervida preghiera: avrebbe voluto sapere quale pensiero l'occupasse tanto, ma non osò farle alcuna domanda. Le strinse soltanto dolcemente il braccio in una muta interrogazione.
Vittoria si scosse: la scena svoltasi nella Catacomba l'aveva profondamene impressionata, tanto che solo ora sembrava accorgersi di essere sua Via Appia che a quell'ora cominciava a popolarsi. Per lo più si trattava di contadini che portavano in città i prodotti della terra, e di schiavi che s'affrettavano in varie commissioni. Di tanto in tanto, a passo cadensato, una pattuglia di soldati passava in un balen'o di acciaio.
Oltrepassata la porta Capena, le due fanciulle si dirigevano verso il cuore dell'Urbe. Vittoria ruppe il silenzio:
- L'editto di persecuzione sta per essere promulgato: il sangue cristiano scorrerà di nuovo a torrenti. Come è possibile pensare a tutto ciò sotto questo cielo, in questa città unica al mondo, dove la natura ci parla dell'amore di Dio e le opere dell'uomo sembrano un'armonica risposta al dono largitoci dal Cielo?
Anatolia si aspettava che Vittoria le parlasse delle sue impressioni sulla cerimonia svoltasi nella Catacomba, ma alle parole dell'amica si guardò intorno.
Vittoria aveva ragione.
Dinanzi a loro, a sinistra, sul colle Palatino, dalle chiome scure degli alberi dello splendido parco s'innalzavano verso il cielo azzurrissimo le statue e le colonne candide del sontuoso palazzo dei Cesari; un po' più innanzi, a destra, brillavano sotto il sole i bronzi dorati e gli innumerevoli marmi preziosi che adornavano la mole dell'anfiteatro Flavio.
La superba città splendeva dinanzi a loro tutta bianca di marmi e scintillante di dorature.
Sembrava che dalla terra salisse verso il cielo un cantico di gloria e di vittoria. Era una visione che avrebbe fatto trasalire di ammirazione un greco o un barbaro, ma che faceva palpitare li legittimo orgoglio un cuore romano.
Anatolia stava per rispondere che quel lavacro di sangue era necessario, che forse Iddio aveva bisogno di un sacrificio di lode che gli avrebbe testimoniato l'amore di tanti suoi figli immolati per Lui, ma si accorse che difficilmente le sue parole sarebbero giunte alle orecchie di Vittoria.
Il brusìo si faceva sempre più assordante. Attraversavano infatti in quel momento il cuore pulsante di Roma. Era quella l'ora nella quale i clienti si recavano a dare il buon giorno ai loro padroni; i curiosi a leggere le nuove ordinanze o gli editti del giorno appesi alle colonne del Foro; i mercanti orientali ad esporre nei crocicchi le loro mercanzie e gli alti ufficiali a rapporto al palazzo imperiale.
Proprio in quel momento uno di essi, che attraversava con passo marziale la strada, viste le due fanciulle, si fermò con l'espressione di chi ha un incontro sommamente gradito e, levata la mano, salutò Anatolia con squisita cortesia. Questa non rispose che abbassando lievemente il capo, mentre le sue guance si coprivano di un vivo rossore. Vittoria non fece neppure in tempo ad interrogarla come avrebbe voluto, perché proprio in quel momento una voce tutta festosa la chiamò per nome.
Voltasi da quella parte, Vittoria vide quattro schiavi che, posata a terra una splendida lettiga, ne rimovevano le tende per aiutare a scendere la loro padroncina.
Era questa una fanciulla, che all'apparenza non poteva avere più di diciotto anni, dall'incedere aristocratico, dai lineamenti graziosi, ravvivati da due occhi neri e vivacissimi. La sontuosità delle sue vesti e la ricercatezza della sua acconciatura che consisteva in innumerevoli nastri d'argento intrecciati fra i bruni capelli, diceva chiaramente che non si trattava più di una "puella", bensì di una "domina".
- Valeria! - disse Vittoria tutta sorpresa - cosa fai nel Foro a quest'ora?
Avvicinandosi ancora per non essere intesa dalla gente che le passava vicino, la giovane matrona rispose:
- Sergio ha voluto a tutti i costi che venissi in lettiga ai Sacri Misteri. Io l'ho lasciato alla villa di Plauzio; e al ritorno ho profittato dell'ora mattutina per fare qualche visita ai miei poveri, prima di rimontarvi. Così sono passate circa due ore, durante le quali, credo, voi due siate rimaste al "coemiterium" per la "velatio". Per conseguenza io adesso son proprio di ritorno dalla via Appia.
E siccome la lettiga giacente a terra ingombrava non poco il traffico, volta ai suoi schiavi, continuò:
- Tornate pure a casa, voialtri: io vengo a piedi.
E postasi fra le due amiche, al braccio di Vittoria, continuò abbassando la voce:
- Per ora tutto quello che posso chiedere a Sergio è che egli acconsenta a queste gite mattutine. E' triste essere separati nell'ideale più caro. Ma tu che ci conosci da tanti anni, Vittoria, tu sai quale unione è la nostra e quanto l'animo di Sergio sia profondamente retto. Chissà! Dio è tanto misericordioso! I suoi occhi non tarderanno ad aprirsi alla luce, lo spero.
Vittoria l'ascoltava in silenzio. Vedeva la bella casa dei Sergi sul Viminale, che aveva accolto da pochi mesi i due sposi innamorati. Unica ombra: lei cristiana, lui pagano... Ne rivedeva il giardino tutto fiorito d'anemoni e di iris, l'atrio elegante, il triclinio lussuoso e soprattutto il cubicolo arredato come un tepido nido, con tutte quelle squisitezze che soltanto un cuore innamorato sa immaginare.
Si, Valeria avrebbe convertito Sergio: ella viveva profondamente la sua fede e con l'andar del tempo il cuore dello sposo avrebbe compreso il segreto che stava alla base della sua virtù.
- Sai, Valeria, che sei diventata una vera signora? - disse d'improvviso Vittoria - così bella, così elegante... Mi fai quasi soggezione.
- E fra qualche tempo sarò più che una signora - continuò in tono apparentemente scherzoso Valeria, mentre la sua voce tremava dalla commozione. - Il Signore ha esaudito le mie preghiere e mi manderà fra poco un suo angelo. - E gli occhi le brillarono di gioia.
- Possa tu essere anche la madre del suo spirito, Valeria! - risuonò dolcissima e pur grave la voce di Anatolia. - Possa tu preservarlo dall'onda del male che incalza ogni giorno più!
La giovane mamma abbassò la testa come per dire che accettava l'augurio, mentre Vittoria, stringendole dolcemente il braccio le sussurrava:
- Oh Valeria! che egli sia veramente il tuo angelo!
Le tre fanciulle salivano ora verso il quartiere dellìAlta Semita, sul colle Quirinale, dove in una posizione incantevole, dalla quale si dominava l'urbe fino al Tramstevere e più oltre, sorgeva la sontuosa casa di Fabio, padre di Vittoria.
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